Reduce dall’arguto corto Le mal bleu, diretto in tandem insieme all’esperto collega Zoran Boukherma per scandagliare speditamente ma anche sagacemente l’atavica insicurezza affettiva sintetizzata dal simbolo di schiettezza e rettitudine conforme al titolo, l’ambiziosa regista transalpina Anaïs Tellenne cerca col lungometraggio L’uomo di argilla d’imprimere alla scrittura per immagini mandata ad effetto sia l’arduo ed erudito lavoro di sottrazione d’ascendenza bressoniana, assurto ad antidoto contro l’enfasi di maniera, sia la straziante intensità d’ogni apologo sull’educazione sentimentale.
Che prende piede nonostante l’atroce dazio imposto dalla deleteria vertigine mentale. In cui gli spettatori sono trascinati sin dall’incipit. Per mezzo del lento, quasi ipnotico, movimento all’indietro della macchina da presa. Volta ad allontanare step by step l’obiettivo dal quadro campestre. Che passa dall’illustrazione alla contemplazione del reale. Ponendo in evidenza il maestoso ed elegante castello al centro dell’anacronistica cornice bucolica.

Dove il massiccio e impacciato custode Raphaël si prodiga a difendere il giardino del fascinoso maniero dalle irritanti talpe, vanificandone la via di fuga, a rimuovere le erbacce, a mandare avanti la proprietà nella quale aleggia l’atmosfera della fiaba gotica. Manca, tuttavia, un’invenzione figurativa degna di nota per supportare sulla scorta degli opportuni guizzi contenutistici la raffinatezza formale. Non esente dalla pigrizia d’idee prese in prestito da nobili antesignani. Dall’horror pionieristico Il Golem di Henrik Galeen e Paul Wegener ad A spasso con Daisy di Bruce Beresford. Alla cura dei dettagli connessi al tran tran giornaliero del gigante buono con la benda sull’occhio sinistro corrisponde una punteggiatura musicale assai convenzionale. Riscattata poi appieno dalla melodia emessa dallo stesso Raphaël suonando la cornamusa durante le prove del gruppo denominato Terra gallica. Capitanato da un orchestrale fedele ai vincoli di sangue e di suolo. L’analisi in sordina dell’altalena degli stati d’animo, attinta alla bell’e meglio ai Maestri della fabbrica dei sogni abituati ad aggiungere all’invisibile ed ergo al Mistero ciò che levano al visibile, cede dunque presto la ribalta alla sontuosa stilizzazione di mera facciata l’onore e l’onere di aprire il varco ai disturbi della sfera psicologica. Che attanagliano l’ereditiera Garance Chaptel. Avvezza a trarre partito dalle delusioni patite nei rapporti di coppia per realizzare opere d’arte esposte nei musei della Borgogna e stigmatizzate dai nuovi media per la loro eccentricità ai limiti dell’ansia ipocondriale.

I solleciti congressi carnali, colmi pure d’imbarazzo da parte dell’introverso monossoide, con la lasciva postina del paese limitrofo, dall’aria invece allegramente birichina, lasciano quindi spazio ai palpiti di emozioni già sfruttate in larga misura nei diversi adattamenti per il grande schermo della parabola settecentesca La bella e la bestia di Madame Gabrielle-Suzanne Barbot de Villeneuve. Di conseguenza la sensazione di déjà vu racchiusa nel programmatico lirismo connesso all’ordine naturale delle cose rappresentato dal polmone verde che circonda la rocca sovrasta l’opportuno timbro d’autenticità. In grado dapprincipio di esibire in brevi ed emblematici ritagli le dissonanze costituite dell’interazione delle soluzioni visive dei moderni cellulari con le vecchie fotografie colme di ricordi. La penuria del cospicuo tasso di nevrotica discordanza, sostituita dai reiterati concerti notturni del colosso impeciato, toglie qualsivoglia tipo di spessore introspettivo ed evocativo all’ennesimo realismo magico. Ormai privo degli idonei tocchi antropologici ed etnografici dispiegati all’inizio. Ciccato perciò il traguardo dell’intelligenza, che unisce cuore e cervello legando tanto il mistico all’agnostico quanto l’esame comportamentistico all’impalco fantastico, resta all’attivo la meta dell’ossessione e della passione. Ghermita unicamente in alcuni sporadici piani d’ascolto dal basso verso l’alto dell’instabile Garance. Assorta ad ammirare gli assoli di Raphaël. Applauditi altresì in occasione di un festival intento ad anteporre i valori ereditati dalla tradizione al falso progresso.

La prova pur apprezzabile di Emmanuelle Devos, nei panni dell’ereditiera che in zona Cesarini immortala con l’argilla la posa più indicativa dell’orco dagli impulsi teneri, non basta a conferire al labile mix di vertigine mentale ed educazione sentimentale il giusto rigore strutturale. Capace di garantire ai gemiti erotici, alla luce annidata tra i cespugli di giorno, al lume di candela negli ampi anfratti domestici la notte, al sibilo del vento, all’approdo nel surreale del realismo magico un compiuto senso di meraviglia. Invece del fasullo riconoscimento conseguito dai nani sulle spalle dei giganti scimmiottando un carattere d’ingegno creativo lungi dall’appartenergli. Al volenteroso Raphaël Thiéry non rimane perciò che mettere a disposizione il corpulento physique du rôle e il monocorde gioco fisionomico alla maschera dell’omonimo gattomammone dal piglio servizievole e dallo spirito sedotto dal complesso profilo di Venere. Troppo poco per permettere a L’uomo di argilla d’inserire nei continui tremiti del modello catturato dalla virtuosistica nababba la mano ferma degli autori con la “a” maiuscola. Che non hanno affatto bisogno di scopiazzare a destra e manca per approfondire i vetusti assilli degli apprendistati alieni all’appiattimento sociale ed esistenziale.
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