Magari: l’esordio alla regia per Ginevra Elkann

In confronto a Favolacce dei fratelli Damiano e Fabio D’Innocenzo, ritenuto un film di punta del reclamizzato circuito nazionale di sale di qualità sul web #iorestoinSALA, ma analogo a guardar bene ad alcuni vanagloriosi apologhi sulla tomba della famiglia intesa come truce ed emblematica chimera, Magari è un capolavoro.

Se non altro perché alieno all’impasse sia del copia e incolla, con i rimandi ad American beauty uniti alla carlona ai richiami a Toro scatenato, sia delle mire artistiche favorite a prescindere da chi vuole declinare il giudizio critico in infecondo ossequio. L’uscita dell’opera d’esordio di Ginevra Elkann su RaiPlay merita almeno un giudizio sereno e compiuto. Formulato senza usare le scorciatoie del cervello odiate da Jim Morrison. L’attitudine a spacciare per omaggi la pigrizia delle idee prese in prestito dai riveriti maestri, nella convinzione che i registi eletti ad autori ed ergo demiurghi dai radical chic estranei alla fede in Dio siano dei Padreterni, non riguarda l’avventizia artefice. Oggetto di curiosità piuttosto fini a se stesse agli occhi della gente borghese incapace di capire l’interazione tra chiave autobiografica ed elaborazione espressiva. Ed è certo più importante afferrare quanto ci sia di suo nel debutto dietro la macchina da presa della figlia del noto giornalista Alain Elkann anziché azzardare ipotesi sulla sfera d’influenza d’una produzione Wildside con Rai Cinema.

Non c’è dato sapere né se Ginevra, nipotina anche del compianto e invidiato avvocato Gianni Agnelli, abbia in un certo senso giocato in casa, attingendo ai propri ricordi per poi trasfigurarli sulla scorta degli stilemi della Settima arte, né della farina del sacco di Chiara Barzini nella fase di stesura dell’ambizioso plot. La co-sceneggiatura, redatta a quattro mani seguendo la falsariga di antesignani tipo Kramer contro Kramer e Gente comune, chiarisce poco. Benché tenti di districarsi alla bell’e meglio tra l’ambizione di mostrare lo stream of consciousness dell’età verde stretta nella morsa dei canonici passaggi connaturati, dovuti alla separazione dei genitori, e l’ovvio valore attrazionale della scrittura per immagini, il copione costeggia comunque molteplici banalità. La voce fuori campo sin dall’incipit della piccola Alma banalizza l’ormai risaputa, ma pur sempre interessante, tecnica dei romanzi psicologici. Il connubio della rappresentazione dei teneri e innocenti pensieri con la sequenza del quadretto intimo nel bel mezzo della messa ortodossa in quel di Parigi diventa troppo generico. Oltre che poco libero, giacché legato all’affollarsi d’inani luoghi comuni. Le reazioni mimiche della mamma Charlotte, di nuovo in dolce attesa, l’angoscia malcelata dei figli, la tenerezza dimostrata nondimeno da entrambi ad Alma, l’incertezza del futuro, l’inganno dell’avventura rientrano nel novero dell’indefesso déjà-vu.

Neppure la trovata della vacanza in montagna con gli sci che ripiega al mare possiede l’appeal poetico del ragguaglio stilistico. Gli echi di Amici miei, ravvisabili nelle cosiddette “villeggianti”, ovvero la moglie e l’unigenita dell’egoista conte Mascetti coi vestiti estivi in pieno inverno, sono alieni al compiacimento dei colpi di gomito. La nota di merito paga però lo scotto al fondato sospetto del massimo di consapevolezza dell’estro della Commedia all’italiana convertito in filigrana nel dato antropologico ed etnologico del melodramma in teoria più erudito. I cortocircuiti visionari rappresentati dall’effigie sul palcoscenico del distratto padre Carlo con la nuova fiamma Benedetta, in grado di corrispondere alle frecce di Cupido in risposta alla scarsa intesa sul versante creativo, avrebbe meritato un trattamento meno superficiale ed esornativo. Stessa cosa per le location dove i ragazzi, avvezzi alla lingua francese e alle forme-bandiera della cadenza romana, sperano d’invertire la rotta. “Magara!” ripete sovente Benedetta giustificando il titolo della pellicola che edulcora in corretto italiano l’esclamazione capitolina. La geografia emozionale stenta quindi ad andare in profondità, svelando il riverbero degli stati d’animo. Magari appare così il frutto di un’occasione in gran parte mancata a causa dell’assenza dell’indispensabile polso. La gamma di ragioni psicologiche connesse ad attese ed empatiche speranze, nutrite per sconfiggere la noia di piombo e l’atteggiamento a dir poco distratto del velleitario Carlo, che sogna di ottenere successo nel cinema degli anni Ottanta in veste di screenplayer, si adegua all’ottica del pistolotto confuso per inteso monito esistenziale.

La virtù di far ridere amaramente e di far riflettere ironicamente affiora in modo discontinuo insieme al professionismo del cast. Con Riccardo Scamarcio in odore, per ciò che conta, del David di Donatello nel ruolo dell’anaffettivo padre sugli scudi. Mentre l’insistito ricorso alle inquadrature di quinta, ai corridoi lungo i mercati in cui Donatella, impersonata da Alba Rohrwacher in maniera abbastanza scolastica, ruba per gioco un paio di occhiali da sole “taroccati”,  alle montagne di Courmayeur e alle spiagge di Sabaudia esibisce un fiacco ritratto delle cose, la musica intradiegetica fornisce stimoli degni di segnalazione. Il carattere d’autenticità della canzone Se mi lasci non vale di Julio Iglesias intonata sull’esempio di Insieme a te non ci sto più nel morettiano La stanza del figlio, trascende l’evidente timbro esplicativo: il ricordo dell’esimio nonno, estremamente controllato fuori dallo stadio, ed entusiasta in tribuna d’onore quando tifava per l’amata Juventus, impreziosisce il riferimento associato alla forza trascinante della cultura. L’esplicita intimità non va tuttavia confusa con l’aura contemplativa: il timbro trascinante del brano musicale Cosa resterà degli anni ’80 trova scarsa attinenza in Magari. Il parlato filmico, congiunto alla vana scoperta dell’alterità, contrattacca alle certezze imposte dalla lancia spezzata alla fiducia nell’avvenire con una vana panacea demodé. La dote rappresentativa predominante è più vecchiotta che giovane. Col risultato di gettare una luce di speranza sul futuro anteponendo tradizioni sorpassate allo spessore dell’ingegno.

 

 

Massimiliano Serriello