Decisa ad adattare la bizzarra e acre pièce teatrale Mangia! alla forza significante talora spiazzante della scrittura per immagini del cinema, traendo linfa soprattutto dal decalogo anticonformista redatto dal Manifesto di Dogma 95, l’ambiziosa attrice pugliese Anna Piscopo, laureatasi in didattica dell’italiano per gli stranieri presso l’università degli Studi di Bari Aldo Moro, esordisce in cabina di regìa snudando il mondo strambo, illusorio e crudele di chi vive ai margini degli spettacoli cabarettistici senza riuscire mai a trascendere l’illusione dell’avventura che condanna all’alienazione qualunque debuttante allo sbaraglio.

Il punto è capire se le idee prese in prestito sul versante tecnico ed espressivo dal decalogo presentato trent’anni or sono dal provocatorio ed estroso guru danese Lars von Trier in occasione del centenario della fabbrica dei sogni siano servite solo a contenere le spese dovute alla produzione low budget condotta in porto dal compianto Galliano Juso, svelto ad approfittare prima di coniugare la vita all’imperfetto della scelta di servirsi della maneggevole camera a mano, oppure se abbiano permesso all’aspirante autrice di esporre in maniera maggiormente avvertita ed evocativa il suo punto di vista sull’argomento in questione.

La conoscenza intima della materia trattata, che concerne in particolare i voluti scompensi venutesi a verificare con le esibizioni canore ai limiti del ridicolo involontario dell’incupita protagonista immersa spesso nell’attanagliante solitudine, dovrebbe emergere appieno in un universo composto di grugni strambi, reazioni mimiche sopra le righe, tempi dilatati ad arte, locali d’infimo ordine, interni opprimenti ed esterni incapaci di fornire una fuga, quantunque simbolica, dai bocconi amari e dalle ingiurie quotidiane. Invece nel passaggio dai monologhi esibiti sulle tavole del palcoscenico, per affidare il pluralismo dei punti di vista dei personaggi confinati ai margini dell’ambìto spettacolo attraverso la complessa prova recitativa della stessa Anna all’impianto corale, attinto alla bell’e meglio alle sagaci opere agrodolci di Robert Altman ed Ettore Scola, affiora lo stridente contrasto linguistico dell’interprete professionista, schiava dell’onere di garantire una forma visiva unitaria ed eminentemente carica di senso a un pamphlet frammentario, dai timbri ora sarcastici ora macchiettistici, con il cast ricavato dalla cosiddetta università della strada.

L’ovvio scandaglio ambientale, con Catania eletta ad attante narrativo impegnato a riflettere il turbinio degli stati d’animo che costringono gli sbandati dei vari hinterland limitrofi a fare definitivamente i conti con le loro dissipatezze, le piazze deserte, simili a quella abruzzese nell’ultimo concerto del cantante confidenziale Antonio Pisapia dell’indimenticabile apologo sull’oblio del modo krooner d’intendere l’esistenza L’uomo in più di Paolo Sorrentino, il parco giochi dove lo struggimento per i sentimenti non corrisposti raggiunge sardonicamente l’acme, il nastro delle delusioni riavvolto in chiave onirica, per esercitare l’assoluto diritto alla fantasia persino nelle composite gradazioni dell’eterno tonfo che manda a carte quarantotto la mera chimera d’un trionfo, veleggiano nell’infertile superficie del pleonastico déjà vu. Anziché approfondire, senza cercare a tutti i costi di sembrare originale, le ubbie dei dilettanti. I ripieghi naïf, spacciati per doti di fulgida naturalezza, impediscono al sovraindicato contrasto linguistico di fungere da denso valore aggiunto al sottofondo morale del quadro talora demenziale. Frammisto agli sguardi velati d’inconsolabile malinconia. L’innesto della bulimia alla stregua d’una patologia da analizzare, parallelamente al training autogeno dei diversi paria in merito al concetto vernacolare attribuito all’atto di mangiare al pari dell’assillante vagheggiamento di scrollarsi di dosso chiunque pregiudichi la chance d’una carezzevole inversione di tendenza, indulge ad alcuni vani virtuosismi. Ravvisabili nell’utilizzo tambureggiante del montaggio alternato. Che, nell’autosuggestione di conferire una vibrante ed empatica suspense alla nevrosi di persone in perenne attesa dell’occasione propizia, stringi stringi, sbocca nel sensazionalismo. Dapprincipio celato dallo specchio deformante dell’inganno e del disinganno. Legato pure all’effigie del palco avvezzo ad accogliere lo stridore delle pernacchie al posto del clamore degli applausi scroscianti. Ghermiti di continuo.

Lo spasimo che percorre l’inquadratura d’una sigaretta equiparata a una specie di grottesca torcia, il processo d’identificazione affidato all’alterazione dei suoni di norma familiari, il corpo celeste catturato nell’aura vespertina, mentre gli utopisti stanchi di lottare contro i mulini a vento di donchisciottesca memoria dormono sul marciapiede, danno un’impennata romantica alla messa in scena saldamente ancorata sino a quel momento all’attendibile benché atroce scetticismo. Incredulito a iosa dai meditati siparietti corrosivi e altresì dalle azzardate incursioni surreali. Il cifrario dell’anima tentato alla carlona in extremis devia invece bruscamente dalla congerie di porte in faccia, di zone d’ombra, di squallide cacce al tesoro, di arie irreparabilmente stonate, di maschere scavate e di cibi lì per lì ingurgitati, poi vomitati. Ad Anna Piscopo, in veste di autrice occasionale, manca il carattere d’ingegno creativo necessario ad allargare gli spazi concessi dai mezzi a disposizione negli spazi fantastici della propria immaginazione. Il dileggio rientra nelle sue corde. L’antidoto al dileggio, individuato in uno spicchio di luna, no. Mangia! chiude i battenti tentando d’intonare i pezzi disarmonici. Per rendere bello nel finale ciò che è sempre stato brutto. L’esito, discostandosi completamente dalla destrezza di razionalizzare l’assurdo dei poeti della Settima arte, traligna l’ipotetico stimolo inventivo correlato alla presunta conoscenza intima della materia trattata nella solita solfa. Avara di spunti autentici e pure d’un onesto spasso. Zeppa esclusivamente d’inappagamenti largamente esplorati da autori con la “a” maiuscola. Ben lungi dal caricare tutte le tinte ed escludere qualsivoglia, opportuna, sfumatura.


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