Mettere una carezza in un pugno, come recita il noto singolo di Adriano Celentano pubblicato in Italia nel 1968, equivale per l’alacre regista nostrano Mauro Mancini a seguire le orme d’illustri colleghi stranieri. Dal compianto punto di riferimento statunitense Nicholas Ray, autore del mirabile cult-movie generazionale Gioventù bruciata, al visionario filmmaker danese Nicolas Winding Refn. Avvezzo ad appaiare la concitazione dell’azione alla contemplazione della poesia.

Lo scopo precipuo in Mani nude dell’attento Mancini, ben lungi comunque dal pagare dazio alla deleteria accidia delle soluzioni espressive attinte all’estro altrui senza mettere parecchia farina del suo sacco nell’assunto ricavato dall’omonimo libro dell’eclettica romanziera milanese Paola Barbato, consiste nel proseguire ancora più compiutamente l’esplorazione dell’impulso predatorio e vendicativo insito in ogni persona portata già ad effetto nel previo spaccato antropologico ed etnografico Non odiare.

Risulta subito incisivo il reiterato ricorso alla correzione di fuoco nella soggettiva sfocata del sedicenne Davide, un ragazzo di buona famiglia sequestrato dall’empia associazione a delinquere limitrofa dedita ai combattimenti clandestini, dinanzi all’algido sguardo da squalo dell’addestratore soprannominato Minuto. Perché quand’era un lottatore nessun avversario riusciva a resistergli oltre. Sebbene emerga un senso di déjà vu alieno al carattere d’ingegno creativo degli Autori con la “a” maiuscola abituati a esporre una loro idea che esula dall’ordinario sul tema dispiegato dall’interazione tra azione e contemplazione attraverso una distintiva ed emblematica cifra stilistica, la sospensione dell’incredulità cattura subito l’attenzione di qualsivoglia platea. Il clima di mistero che affiora sin dall’incipit in merito agli scheletri nell’armadio del ragazzo appartenente all’alta borghesia costretto ad abrutirsi pur di sopravvivere rientra nei colpi di gomito dei soliti noir girati sull’esempio di quelli americani. Sprovvisti quindi delle apposite varianti necessarie ad approfondire le paure ancestrali legate all’orripilante scoperta dell’alterità, i rapporti interpersonali contraddistinti dalla predominanza dell’adagio latino “Mors tua, vita mea” sulla mutua solidarietà e il mesto processo di disumanizzazione ivi congiunto. L’adattamento per il grande schermo redatto dallo stesso Mauro Mancini insieme all’amico sceneggiatore Davide Lisino, sulla base del proficuo pluralismo d’ambedue i punti di vista, antepone alle tre parti con cui l’autrice letteraria ha suddiviso il crudo romanzo di formazione, insignito del Premio Scerbanenco, due atti.

Il primo imperniato sul dinamismo dell’azione e sull’ineluttabile processo di disumanizzazione. Il secondo basato sulla contemplazione innescata dal processo di umanizzazione. Specie da parte del refrattario Minuto. Impersonata dal sorprendente Alessandro Gassmann sulla scorta dell’opportuna ed erudita sottorecitazione alla Dirk Bogarde. Che richiama alla mente pure l’impeccabile misura interpretativa di Anthony Hopkins in Quel che resta del giorno. Per cui un impercettibile movimento del labbro o delle sopracciglia basta a creare una sorta di Tsumani. Accanto a lui Francesco Gheghi, elettrizzato dal confronto col mentore dentro e fuori la compenetrazione nei rispettivi ruoli, incarna la multipla palingenesi di Davide, che sceglie il nome di battaglia di Batiza, sullo slancio d’un radicalismo mimetico degno dei mostri sacri dell’Actors Studio. Allo spettacolo di secondo piano della psicotecnica recitativa lo spettacolo di prim’ordine della regia replica accostando alla tambureggiante colonna sonora di Dardust, un compositore coi fiocchi all’esordio nella fabbrica dei sogni, la forza significante dei rumori diegetici. Spesso appena sussurrati. Talora stranianti. In sottofondo. Al pari dei suoni emessi dalla nave-prigione diretta verso sempre nuovi incubi ad occhi aperti delle interminabili lotte all’ultimo sangue in qualunque latitudine dello Stivale. Sono però i respiri, impreziositi dal lavoro di sottrazione che toglie al visibile per aggiungere alla potenza dell’invisibile, ad alzare definitivamente l’asticella. Ai superficiali rimandi d’ascendenza fumettistica al manga L’uomo Tigre, coi futuri campioni di wrestler sottoposti nell’età verde ad allenamenti massacranti dalla cinica yakuza dedita all’iniqua egemonia della materia sullo spirito, corrisponde uno scandaglio maggiormente in profondità degli interludi di quiete. Che non esortano il pubblico dai gusti semplici ad applaudire l’energia dello scontro, esacerbato dal senso di conservazione, né lo stato di fibrillazione o il delirio d’onnipotenza ghermiti dagli spettatori repressi. Abituati a godere per interposta persona. Bensì spronano alla riflessione i patiti dell’azione. Affinandone il gusto.

Ed è per questo motivo che Mani nude andrebbe mostrato nelle scuole. Anche se la dinamica del campo e controcampo, coi nodi che vengono al pettine step by step, non risulta esente da qualche segno d’ammicco. Anche se il montaggio alternato tra passato e presente, quando viene svelato l’arcano concernente gli scheletri nell’armadio del figlio di papà trasformato in killer, finisce per privilegiare la retorica della modalità esplicativa all’antiretorica volta ad anteporre il carattere misterioso dell’autentica poesia al gioco geometrico dell’intrigo. La prova del vetusto Renato Carpentieri nelle vesti del boss dell’organizzazione criminale, che converte l’adolescenza ad agnello sacrificale per ridurre il rischio d’insuccesso e riempirsi le tasche, sciorina il garbo speculare del finto signore. Intento a snudare, anziché i migliori angeli dell’indole cara ad Abramo Lincoln, i peggiori demoni. Celati dalle buone maniere. La giustapposizione degli opposti trascende quindi i discorsi strettamente informativi e didattici sulla violenza che ammalia od opprime. Alla stregua degli squarci surreali. Non sempre singolari. Giacché conseguiti da modelli inarrivabili. La facciata del contegno, i nervi tesi sino allo spasimo, la maschera di Minuto d’impenetrabile ruvidezza dapprincipio appena scalfita, in seguito capace di cedere spazio a un pianto catartico, con la ruga glabellare dell’addestratore di buccia dura che sparisce per magia, rientrano nelle soluzioni narrative ed espressive scevre dai plagi camuffati da omaggi. L’enigma del buio finale che riavvolge il nastro, in attesa d’un respiro eleggibile ad anelito di speranza, veicola il climax di Mani nude, a dispetto degli schemi triti e ritriti, dall’isteria figurativa dell’apologo febbrile sul barbaro istinto di sopraffazione alla sublimazione d’assoluta castità della contemplazione.


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