Marcello Capozzi: a largo, navigando a vista

Raccogliamo sempre risposte romantiche quando chiediamo a certi artisti di parlarci di bellezza. E questo accade quando lo sguardo naviga alla ricerca di quel certo modo di pensare alle cose, non più fatto di superficie ed estetica quanto invece di dettaglio, di rifiniture, di piccoli accorgimenti. E questo ci arriva fortissimo ammirando quale dialogo si realizza nel tessuto tra immagine e melodia e suono dentro il nuovo video “Six Years Later”, dentro questa città deserta, dentro una pandemia rivoluzionaria. Marcello Capozzi pubblica per la label abruzzese I Dischi del Minollo questo lavoro dal titolo “Offshore”. Un viaggio, personale quanto allegorico, un suono in bilico tra indie-pop e distopie troppo inglesi per non rilevarne i dettagli. Parliamo con lui di bellezza e non solo…

Noi iniziamo sempre parlando di bellezza. Per Marcello Capozzi cos’è e cosa significa ricercare la bellezza?
Significa cercare connessioni ampie e coltivare l’intensità di uno sguardo capace di attraversare e poi oltrepassare l’angustia del vivere quotidiano. Contro il nostro volere, la memoria con gli anni si affievolisce e tendiamo a dimenticare gran parte delle nostre esperienze di vita. Nella lotta contro l’oblio personale, che inevitabilmente sopraggiunge, ricercare questo tipo di bellezza significa impegnarsi a lavorare in favore della parte memorabile della nostra biografia.

Dentro questo lavoro secondo te la bellezza che ruolo ha avuto? Lo trovo un disco molto visionario, estetico per molti aspetti…
Ti ringrazio. Il ruolo della bellezza in Offshore risiede proprio in questo elemento visionario, in questo sguardo che buca l’ordinario, che attraversa e poi oltrepassa l’esistente quotidiano per aprire a dimensioni ulteriori dell’esperienza umana del mondo.

In genere si dice sempre che ogni cosa è come fosse la prima. E in fondo questo disco sembra esserlo su molti fronti, non trovi?
Londra mi ha rimesso al mondo, quindi sicuramente proporre questo progetto, dopo tanti anni di silenzio, equivale a esordire di nuovo. Ed è paradossalmente così nonostante, in realtà, l’obiettivo originario di Offshore fosse quello di costruire un’opera conclusiva, un gesto definitivo a chiusura del mio rapporto con la musica. Inoltre, tutte le collaborazioni per la realizzazione del disco sono frutto di nuovi rapporti.

La pandemia, una Londra deserta, un inglese che incontra l’italiano… che viaggio è stato?
Un viaggio umanissimo che ha qualche forma di relazione con l’Infinito, nonché con la ricerca della bellezza, nel senso a cui ci riferivamo sopra. Di conseguenza, un’esperienza di vita con ottime chance di rientrare nella parte per me memorabile della mia biografia.

Distopia ma anche pop convenzionale. Quanto spazio hai dato alla ricerca e quanto invece alla scuola classica della canzone?
La ricerca dovrebbe essere un percorso volto all’individuazione di soluzioni adeguate alle caratteristiche dell’opera da realizzare: in Offshore ho cercato semplicemente di operare in maniera aderente al senso espressivo dei brani. A volte l’idea giusta può richiedere un elemento armonico, un determinato incrocio di frequenze, una dissonanza o finanche una forzatura timbrica che rasenta la stonatura. Dipende dai casi. Si ha maggiori probabilità di prendere decisioni sagge quando si evitano i condizionamenti derivanti dall’abbracciare rigidi a priori concettuali. Del tipo: voglio essere visto come un “cantautore tradizionale” o come uno “sperimentatore”? Mi sembra comunque di poter osservare che tra dimensione strumentale e narrazione testuale vi sia un equilibrio indovinato. Così come mi ritrovo sorpreso nel contare tre-quattro ritornelli in scaletta, mentre in genere i refrain non sono esattamente nelle mie corde.