Assurto ad autore con la “a” maiuscola in grado di conciliare la forza significante del cinema di pensiero e l’immediatezza di quello commerciale, conquistando sia la Palma d’oro sia l’Oscar come miglior regista, al pari di Sean Baker con la versatile ed emozionante commedia sofisticata Anora, Bong Joon-ho, archiviato l’applaudito dramedy suspenser Parasite, imperniato sull’invidia di classe approfondita in chiave anche horror, torna ad affrontare in Mickey 17 il genere avveniristico. Già scandagliato attraverso scelte espressive diametralmente opposte tra loro. Conformi al fermo desiderio di cambiare pelle in ogni film sulla scorta però di alcuni eccentrici chiodi fissi. Concernenti pure, per l’appunto, il mondo fatto a scale.
Inserito in Snowpiercer nel simbolico treno con a bordo gli ultimi esseri umani sopravvissuti all’era glaciale dove i poveri sbattuti nei vagoni-prigione di coda si ribellano ai ricchi stravaccati nelle lussuose ed elitarie carrozze di cima e alla milizia delegata a proteggerli riuscendo ad aprire le porte d’accesso grazie altresì ai poteri chiaroveggenti d’una medium capace di scorgere all’esterno la prosecuzione dell’intera specie. Rappresentata in quel caso da un orso bianco e nell’eco-fantasy successivo Okja dall’omonimo maiale vittima degli atroci esperimenti genetici perpetrati dalla cinica multinazionale messa a tacere dall’amore per gli animali dell’intraprendente ragazzina coreana Mija.

Chi, citando Il marchese del grillo, sale e chi scende il mondo fatto a scale in Mickey 17 se non il rassegnato protagonista? Un impiegato androide ritenuto sacrificabile dalla spedizione umana bramosa di colonizzare il mitologico mondo di Niflheimr. La terra delle nebbie a prima vista deserta in cui le larve giganti nascoste nel sottosuolo ghiacciato difendono il luogo natìo avvolto nell’abisso cosmico dagli attacchi d’individui decisi a piantare la bandiera del profitto sfruttando in nome dei progressi della scienza da compiere senza sosta dei replicanti con i sentimenti delle persone ritenute normali. La tecnica di ripresa dell’esperto Bong Joon-ho, avvezzo a destare emozioni profonde per mezzo di creature considerate mostruose sin dai tempi dello sci-fi The host congiungendo gli stilemi dell’apologo sullo smaltimento abusivo al valore dell’immaginazione, trova nell’assunto narrativo ricavato dall’estrosa novella di Edward Ashton l’humus congeniale per congiungere il proverbiale mix di tormentoni tematici ed esercizi stilistici alla materia poetica degli incubi collettivi. Portati costantemente a galla dalla fabbrica dei sogni tramite il carattere d’ingegno creativo che congiunge l’aura meditabonda al risolutivo intervento degli imprevisti necessari a tenere sui carboni ardenti il pubblico dai gusti semplici. Propenso altrimenti ad annoiarsi a morte dinanzi all’egemonia della rarefazione sul dinamismo dell’azione. Abituato a dare un colpo alla botte dell’opportuna rarefazione, con le risonanze interiori sugli scudi per accrescere i livelli di lettura dei percorsi allegorici compiuti nell’arco del racconto, e l’altro al cerchio del dinamismo dell’azione, per non tralignare la dimensione spaziale e temporale nella freddezza dell’intelligenza avversa ai trascinanti topòi della geografia emozionale, Bong Joon-ho va a colpo sicuro. O almeno crede di andarci. Al pari dei seminterrati di Parasite, delle fogne di The host, della terza classe di Snowpiercer, la scoperta dell’alterità, ovvero la diversità destinata a divenire man mano familiare, coincide sul piano dell’incisività introspettiva con un altro punto assai inospitale. Colmo d’insidie.

L’esplorazione della diciassettesima incarnazione in laboratorio dello schiavo sensibile e imbranato, costretto a fungere da cavia in attesa degli esiti dei propositi espansionistici d’una coppia mefistofelica incline alla deformazione caricaturale, acquista spessore grazie alla reiterazione dell’azione rarefatta. Circoscrivibile nella rovinosa caduta nel cuore della tana degli striscianti. I vermi giganti capitanati da una Regina Madre che dimostra la propria grandezza praticando l’inusitata pietas. La reiterazione dell’azione rarefatta eletta ad antidoto contro qualsiasi sbadiglio, arricchendo la stessa scena apparentemente statica con dettagli sempre nuovi, ricava linfa dall’esempio di nobili antesignani. Della levatura di Joseph L. Mankiewicz in Lettera a tre mogli. Scongiurato quindi il tangibile rischio di pagare dazio all’incognita della noia di piombo, traendo partito in filigrana, oltre che dal woman’s picture per eccellenza, anche da Forrest Gump per il personaggio dell’idiota gentile alieno alla resa incondizionata, Mickey 17 comincia presto a tradire la deleteria pigrizia delle idee prese in prestito a destra e a manca. È il prezzo da pagare a un onesto intrattenimento che procede puntando l’indice contro lo speculatore autoproclamatosi scienziato. Che Mark Ruffalo impersona sulla scorta d’un insostenibile gigionismo. Lungi comunque dal cadere nel ridicolo involontario perché contrapposto secondo copione alla misuratissima recitazione atonale di Robert Pattinson nei panni dello iellato topo da laboratorio in carne ed ossa. Soggetto a qualsivoglia tipo di mesta e impietosa dipartita. Infilzato, gasato, bruciato. Ma risparmiato dalla capobranco delle creature in difesa della terra identitaria dalle brame espansionistiche del cattivo di turno. L’incontro, fuori programma, di Mickey 17 con il doppio riprogrammato Mickey 18, deciso ad anteporre all’ostilità iniziale nei confronti del gemello impacciato il coraggio d’immolarsi per una buona causa, gronda enfasi di maniera da ogni poro. Rendendo incompatibile il risvolto sulla scia del mélo Voglia di tenerezza al maschile con il piglio visionario dell’affresco gotico proiettato nel futuro che concilia la dicotomia del terrore-attrazione per il sovvertimento del presunto ordine naturale delle cose insieme all’estetica irrazionalista. Ma per razionalizzare l’assurdo e raggiungere vette poetiche, distanti dalle secche della retorica dovuta al leitmotiv del livellamento egualitario che manda a carte quarantotto i veri valori ravvisabili nei trascinanti ed empatici vincoli di suolo, serviva un autore con gli attributi. Tipo Terry Gilliam, David Cronenberg, John Carpenter, Roger Corman. Mai nemmeno candidati all’Oscar. Scimmiottati ciò nonostante di continuo dal sopravvalutato e involuto Bong Joon-ho.

Che centra il bersaglio quando, memore di Okja, l’unica sua opera pienamente riuscita in quanto farina del proprio sacco, converte l’impasse dell’incomunicabilità nella comunicazione catartica con il gigantesco animale braccato dai seguaci del bieco materialismo. A ovviare agli sdolcinati ripieghi negli impliciti ed espliciti predicozzi, rispediti sennò al mittente persino dalle platee munite di licenza elementare, provvede l’attitudine a coinvolgere gli spettatori nella ritualità, nelle differenze di rango, nella partecipazione sentimentale, nei sodalizi riparatori ai disfacimenti progressivi dei thriller psicologici e animalistici a lieto fine. La buffoneria di rito esibita per convertire lo spettacolo accigliato per lo sfruttamento in atto nelle spassose punture di spillo della farsa maliziosa, avvezza altresì alla satira intelligente, tenta di sublimare con il valore aggiunto dell’ironia la banalità di tramutare il Ripugnante in Meraviglioso. Gli alfieri della Settima arte legata da sempre alla personificazione del Rischio e della Minaccia rimarranno delusi perciò dai plagi camuffati da omaggi. Annacquati dalle gag di alleggerimento. Estranee, in prassi e in spirito, all’arguzia delle situazioni tragicomiche ad appannaggio dei Maestri addestrati alla virtù dell’irrisione sacrosanta. Scomodata per restituire alla funebre illustrazione della società di domani il diritto alla fantasia garantito dalla vena brillante dell’allegra invenzione. Ad allontanare l’ennesimo compendio di spaventi, di disincanto e d’incanto dal grigiore dell’esistenza non bastano i tenui riflessi dei ripetuti misteri da portare a galla insieme al repertorio risaputo di pelle d’oca ed emisferi dapprincipio sinistri. L’abile pittura dell’ambiente alternativo della science fiction, la schietta denuncia dell’ipocrisia degli sfruttatori, l’aria di ostilità fronteggiata dall’atmosfera di complicità dei seguaci d’una politica contraria al mito del successo, da conseguire a tutti i costi, restano, comunque, all’attivo di Mickey 17. Ad abbassare inesorabilmente l’asticella, a braccetto delle infeconde scimmiottature sparse a tappeto, intervengono gli inevitabili soprassalti di ferocia, le scene inutilmente sensazionali, il falso decoro chiarificatore fornito dal vezzo di scrivere con la luce della pur avvertita fotografia, l’accidiosa scelta di affidare la questione culminante della psicopatologia imperante all’inizio e dell’emblematica variazione atmosferica, che coincidono con il cambio di rotta che cementa la morale della favola, solo ed esclusivamente agli effetti speciali. Anziché al guizzo risolutivo d’un Autore coi fiocchi. Mai pervenuto. Con buona pace dei parametri di assegnazione dell’Oscar. Più impenetrabili dei sempiterni viaggi sul grande schermo nelle galassie ora lontane anni luce ora a due passi.
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