Riuscire ad andare oltre l’ascendenza avveniristica del genere di fantascienza per esibire l’egemonia della contemplazione sul dinamismo dell’azione attraverso il valore aggiunto della geografia emozionale costituisce senz’alcun dubbio una sfida ambiziosa. Che l’ormai esperto regista autoctono Louis Nero raccoglie in Milarepa per sancire definitivamente l’investitura ad autore con la “a” maiuscola.

Abituato a mettere parecchia farina del suo sacco nell’intenso thriller mitologico Golem, nell’apologo storico sull’interazione tra pietà ed empietà, Rasputin, nel biopic visionario Il mistero di Dante e nel riuscitissimo giallo fantascientifico The broken key.

Ora è l’atteso turno dell’affresco apocalittico. Intento ad anteporre la prospettiva d’un mondo dispotico connesso all’aura meditabonda del cinema di pensiero rispetto ai tópoi della narrativa d’anticipazione trita e ritrita. A dispetto della varietà dell’azione innescata in apparenza dal supporto di elementi straordinari. Nell’ambito d’una evasione fantastica con le polveri bagnate che rientra, giocoforza, nell’ordinaria amministrazione delle opere avvezze ad appaiare alla bell’e meglio il sentimento del tragico, concernente gli incubi ad occhi aperti d’un domani incerto, al gusto degli effetti speciali cari al pubblico dai gusti semplici. Il punto cruciale, in merito alla suddetta elezione ad autore tout court, per cui non è sufficiente né l’aver diretto sin dall’esordio attori di calibro internazionale né la destrezza esibita nella contaminazione del generi, consiste nel capire in che modo Louis Nero espone il peculiare punto di vista sull’indicativo rapporto tra dispotia e utopia. Prendendo perciò le debite distanze dal punto di vista manifestato cinquantun’anni fa nell’antico Tibet del mélo sul passato Milarepa dall’arguta Liliana Cavani. Nel futuro dispotico di Louis Nero, dove l’universo adrenalinico ed epicizzante alla Mad Max cede il passo al percorso di formazione che privilegia all’esasperazione del senso di conservazione l’egemonia dello spirito sulla materia, il territorio della Sardegna assurto ad attante narrativo carico di significato sfodera indubbiamente il potere della suggestione. Che però, a lungo andare, rischia di veleggiare nell’infeconda superficie degli spazi conformi, stringi stringi, solo ed esclusivamente alla natura generica d’un mero fenomeno psicologico.

Estraneo dunque al livello puramente interiore dell’attitudine dello spirito umano a decifrare il ritorno all’età arcaica del tempo che verrà in termini mitologici. Se non biblici. I colori dell’inedito tramonto ghermito da vicino, lo scenario desertico, la voce fuori campo, l’interazione tra suoni diegetici ed extradiegetici aggiungono, a ben vedere, assai poco, sul versante contenutistico, alla vita sociale delle comunità nuragiche scampate al decesso dell’illusorio progresso. La vita intima all’interno del villaggio, con le canoniche capanne circolari in pietra e le torre megalitiche sugli scudi, valicando i limiti dell’impalcatura formale a corto di guizzi concreti, trae al contrario linfa dapprincipio dalla dignità del padre a capo della benestante famiglia bucolica, fedele ai vincoli di sangue e di suolo, che definisce la piccola Mila il suo bocciolo, e in seguito dalle immagini delle fabbriche abbandonate. Appare invece pretestuoso l’ingresso in scena del maestro spirituale in visita interpretato dall’involuto Harvey Keitel. La decisione di vagare per l’iniquo mondo esacerbato dalla dispotia e apprendere i segreti della magia nera, fingendosi ragazzo, per restituire pan per focaccia agli zii usurpatori nel momento della mesta dipartita del capostipite cortese ed empatico, stenta ad attribuire alla rabbiosa palingenesi di Mila in Milarepa le drammatiche convulsioni di un’anima realmente ossessionata dal demone della vendetta. L’animismo predisposto da Louis Nero nel trapasso dalla dispotia all’utopia richiama alla mente, nonostante le evidenti interpolazioni riguardanti la dimensione spazio-temporale e l’identità sessuale del mistico reincarnato nei labili panni muliebri frammisti alla visione apocalittica del domani in ballo, l’interazione tra pietà ed empietà concepita ex ante dall’alacre ed erudita Cavani nell’azzeccata parabola sci-fi I cannibali.

Con il seppellimento dei consanguinei morti che predilige sulla scorta dell’immortale Antigone di Sofocle ai decreti dei tiranni la pietas deliberata dalle legge divine. D’altronde Louis Nero pure nel rievocare l’esistenza terrena di Grigorij Rasputin aveva preso spunto dalla sagacia di combinare le testimonianze ai timbri mistici della stessa Cavani in Francesco. Alla pigrizia delle idee attinte all’estro altrui la Milarepa che verrà replica accoppiando le musiche tibetane ad alcuni compositi paesaggi isolani degni di nota. Tipo la miniera di Montevecchio, il nuraghe Santu Antine a Torralba e il lago di Bidighinzu. Nessuno tuttavia lontanamente equiparabile alle vette dell’Himalaya. L’accezione culturale e spirituale che si cerca perciò di attribuire alla prevedibile gamma cromatica garantita dalle location, specie il luogo consacrato ma ostile in cui la comprensiva consorte dello scorbutico santone tesse l’emblematica tela alla stregua della Penelope cantata da Omero, si va ad amalgamare da copione al filo della trama dispiegato man mano. Senza ricavare nulla di originale per conferire ai valori figurativi la rilevanza di quelli introspettivi. La purificazione dell’epilogo non appare sufficiente a fugare il fondato sospetto di manierisimo. L’interconnessione tra viaggio simulacrale ed entità trascendentale delineata da Louis Nero nel trapasso dalla dispotia al mondo ideale dell’utopia, che nobilita la scontatezza dell’happy end, ne cementa appieno l’evidente calo sotto l’aspetto dell’acume sperimentale. Provocando persino qualche deleterio sbadiglio. Milarepa chiude così i battenti con l’inane tentativo di ottenere gli scroscianti applausi di chi scambia la soporifera effigie dello spirito dell’albero dai grandi rami dell’ascetica conclusione per la sacralità dei luoghi dell’anima davvero riflessivi ed evocativi.


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