Miserere: effetti canzonatori ed echi tragici di Babis Makridis

L’interruzione del sodalizio artistico che legava il regista ellenico Yorgos Lanthimos allo sceneggiatore Efthymis Filippou, sulla falsariga dell’alchimia stabilita ai tempi del neorealismo da Vittorio De Sica con Cesare Zavattini, ha finito per nuocere ad ambedue i neo-contendenti.

Al primo a fronte dell’esacerbazione delle tecniche di straniamento, perfezionate, all’epoca dell’alacre accordo, con rigorosa esattezza, sull’esempio dell’esimio Kubrick, ed esibite, invece, di recente, nel pur lodato affresco storico La favorita, al fine di darsi un sacco d’arie per mezzo di alterazioni prospettiche incapaci, però, di riuscire ad aggiungere davvero qualcosa degno di nota ai risvolti dei personaggi e agli intrighi di corte.

Al secondo per la scarsa alchimia stabilita insieme al regista Babis Makridis con il mélo raggelato Miserere, a causa degli elementi espressivi diametralmente opposti tra loro posti in essere in chiave provocatoria. La scarsa efficacia della vicenda, con l’avvocato protagonista immerso nell’atroce eremo del tran tran giornaliero insieme al figlioletto e all’amabile cane di famiglia in seguito all’incidente per cui la moglie è entrata nell’incoscienza dell’algido coma, deriva dall’impasse di congiungere gli stilemi della tragedia greca al contraltare sarcastico e misurato dell’assurdo poetico.

La contaminazione evocativa porta così i segni dell’arroganza di chi mette troppa carne al fuoco, anziché l’umiltà degli sperimentatori intenzionati ad approfondire – attraverso l’idonea forma – i meandri del contenuto di specie umanistica. A furia, viceversa, di echi sentimentali, con l’effigie del mare in orizzonte simile a quello palesato nell’incipit di Nuovo cinema Paradiso da Tornatore, e controechi zeppi d’impassibile disincanto, sull’esempio delle commedie anaffettive dell’estroso Todd Solondz, Makridis non cava un ragno dal buco. Altro che estrarre conigli dal cilindro!

Con il ritorno alla vita della consorte, rea di alterare l’abitudine alla depressione raggiunta dal marito al pari di un bizzarro equilibrio, i nodi vengono mestamente al pettine. Ed è lì che il supporto, in fase di scrittura dell’involuto Filippou, mostra la corda. L’influenza reciproca di suoni diegetici ed extradiegetici, intenti a ritmare sia gli interni domestici e le glaciali corsie d’ospedale, sia i diversivi panteisti, uniti all’ordine naturale delle cose negato dalla gravità degli eventi, cede il passo ai pleonastici motteggi canzonatori sforniti dell’indispensabile virtù di snudare l’anima segreta di ciascun individuo.

Con buona pace delle incisive performance di Yannis Drakopoulos ed Evi Saoulidou, nei panni rispettivamente del tribuno a corto di parole e dell’angelo del focolare ferito nei nervi scoperti, tutti gli attori sono utilizzati alla stregua di mere pedine d’uno scacchiere dall’esito assai modesto. La ricerca della verità interiore, attraverso l’assurda inazione, spacciata per significativa ed enigmatica lentezza, traligna in una noia di piombo. Non c’è quindi spazio nemmeno in zona Cesarini, nonostante il colpo d’ala dei titoli di coda di Miserere, per la leggerezza insita nel valore dell’umorismo. Ma solo per gli abbagli di una mancata intesa volta a prendere lucciole per lanterne nella boria d’impartire bislacche lezioni di cinema.

 

 

Massimiliano Serriello