Con protagoniste Laura Chiatti, Chiara Francini, Antonia Liskova e Jun Ichikawa, Addio al nubilato, in arrivo su Amazon Prime Video il 24 Febbraio 2021, è il terzo lungometraggio diretto da Francesco Apolloni, tratto da un suo spettacolo teatrale.
Abbiamo quindi intervistato il regista per parlare di questa commedia dal finale a sorpresa che, con quattro amiche di vecchia data impegnate a cercare attraverso una sorta di caccia al tesoro la sposa durante il suo addio al nubilato, in mezzo a spogliarellisti di colore e un’esibizione di Loredana Berté non manca di tirare in ballo tematiche drammatiche quali gli abusi sessuali e l’aborto.
In quale momento hai pensato di trasformare in film la tua commedia teatrale?
Quando avevo visto che la commedia teatrale funzionava e che il pubblico la amava. Avevo già trasformato una commedia teatrale in film con La verità, vi prego, sull’amore, quindi ho pensato che potevo rifarlo con Addio al nubilato. Sai, il teatro oltre ad essere una grande palestra è un grande laboratorio, dove puoi sperimentare testi, commedie e monologhi. Mi è sembrato che l’esperimento funzionasse, tanto che la commedia ha avuto varie edizioni, e ci credevo talmente tanto che l’ultima volta l’ho prodotta io.
Come hai scelto le protagoniste del film?
Laura Chiatti la conosco da quando aveva quindici anni, interpretai con lei due film quando ero ragazzino (Laura non c’è e Pazzo d’amore, nda) e mi sembrava molto adatta per il ruolo di Linda. Chiara Francini mi sembrava giusta fisicamente; poi ho fatto dei provini, ho incontrato Jun Ichikawa che è un’attrice straordinaria. Il cast è nato così, poi ho cercato di immaginarmele fisicamente, ognuna con un suo carattere. Una giapponese, una slovacca, una toscana trapiantata a Roma. Mi piaceva l’idea di avere quattro attrici diverse per cultura e provenienza. Per quanto riguarda gli altri attori, Adrian Gaeta è un ragazzo con cui avevo studiato all’Actors studio a Los Angeles, Billo (Thierno Thiam, nda) è un carissimo amico, un ragazzo di colore divenuto famoso con Teo Mammucari. Dalle quattro protagoniste, poi ho scelto le giovani secondo una verosimiglianza con le adulte e per il talento. C’è un cast di nove donne, devo dire che è difficile trovare un film che ne include così tante.
Parliamo del coinvolgimento di Loredana Berté…
Addio al nubilato secondo me ha due anime: una più pop e uno spirito rock, rappresentato da Non sono una signora. Non a caso, faccio vestire le protagoniste come la Berté in quel videoclip. Ho pensato che Loredana Berté sarebbe potuta apparire nel film. È stata splendida, perché, come i grandi professionisti, si è mostrata disciplinata, ha lavorato quelle due o tre ore senza mai sedersi e ha fatto tutto ciò che le ho chiesto. Il film è anche un grande omaggio a lei.
Nel film si avverte un respiro internazionale probabilmente proveniente da modelli cinematografici esteri. Ti potrei citare Sex and the city o Crazy night – Festa col morto…
Devi pensare una cosa: io ho scritto questa commedia venticinque anni fa, poi l’ho realizzata per la prima volta a teatro circa dieci anni dopo, quindi molto prima che uscisse Crazy night – Festa col morto. Addio al nubilato è una commedia, ma il pretesto, però, è raccontare tutt’altro. Per me il film è una parabola. Pensiamo che abbiamo troppo tempo per vivere, ma, in verità, non è così, quindi tanto vale provare ad essere felici e vivere le proprie passioni. Ovviamente, con la cornice dei cliché dell’addio al nubilato. Qui c’è una caccia al tesoro, poi il film va a parare da tutt’altra parte. Lo spogliarellista c’è perché fa parte dell’addio al nubilato, ormai è diventato un rituale. In più, ogni mia protagonista ha una ferita con la figura maschile. È la notte in cui loro si dicono cose che non si sono mai dette. Questa introspezione credo renda la commedia differente da altre analoghe. Io amo l’ironia anglosassone, ma Addio al nubilato è molto più europeo. Certo, se fai un film con tutte donne può ricordare Sex and the city, ma, sinceramente, la serie tv non l’ho mai vista. Ho visto solo uno dei due lungometraggi per il cinema.
Al di là della commedia, il film tira in ballo tematiche molto attuali, dall’aborto all’immigrazione clandestina, fino all’omosessualità…
Considera che nella commedia che avevo scritto a teatro l’omosessualità era una tematica riguardante un altro personaggio, non quello che vediamo nel film. All’epoca l’argomento era qualcosa di curioso e poco visto, poi il cinema se ne è appropriato. Inoltre, essendo passati tanti anni da quando scrissi il testo per il teatro, il film si è trasformato, ma anche durante le prove con le attrici. Essendo anche un attore, lavoro tanto con gli attori e, soprattutto in un film femminile, devo stare molto in ascolto, perché sono un maschietto. Per esempio, a teatro non c’erano né l’aspetto della caccia al tesoro, né il colpo di scena finale. In America negli ultimi anni sono usciti Crazy night – Festa col morto, Le amiche della sposa e molti altri, ma in Italia nessuno aveva affrontato in un film l’addio al nubilato. Nella commedia teatrale, tra l’altro, non c’erano le giovani e neppure quel patto romantico da sedicenni, quando si dice “Qualsiasi cosa succede, ci saremo sempre”. Alla fine non è quasi mai così.
Come ti è venuto in mente di far parlare Fabrizio Nardi in quel dialetto particolare?
Insieme. Ci abbiamo ragionato e pensato. Fabrizio è straordinario e anche un po’ sottovalutato, mi piaceva l’idea che entrasse in questa suite dell’hotel, dove ci vanno solo Putin o Madonna, non un personaggio come lui. Parla un dialetto che solo lui sa cosa sia, un po’ umbro, un po’ ciociaro, un po’ aretino, è un mix. È un dialetto che si è inventato lui. Mi divertiva un tipo così strano. A me Fabrizio fa molto ridere ed è anche un bravo attore drammatico. L’ho voluto a tutti i costi, mi sembrava giusto che fosse nel cast. Magari anche un altro bravo caratterista poteva ricoprire quel ruolo, ma volevo che nel film ci fosse anche un po’ la mia famiglia. Oltre ai provini, una cosa che mi ha guidato è stato il circondarmi di attori e persone che mi vogliono bene, che sai che sono disposte a sacrificarsi per rendere il tutto più facile.
Quale è stata la sequenza più difficile da girare?
Bella domanda. Mi viene in mente quella delle montagne russe, perché la scena parte con Nina Fotaras e Antonia Liskova, la giostra sale e vedi solo la seconda delle due. Quindi partivano insieme, la carrozza saliva in cima, ma, prima di finire il giro, la Liskova scendeva grazie ad una sorta di scaletta ripidissima. Quindi, la carrozza rimaneva ferma venti minuti con le persone a quell’altezza che si terrorizzavano. Perché si impiegava tempo ad andare a prendere Antonia con una cintura di sicurezza per farla scendere. Per girare due ciak della scena abbiamo impiegato quattro ore. Poi le ragazze non erano molto convinte della sequenza in cui parlano del pompino (ride).
Cosa pensi di questa nuova tendenza del distribuire i film su piattaforme streaming?
Che Dio le benedica! Soprattutto in Italia, che non è come la Francia o l’Inghilterra, dove i propri autori vengono difesi, per fare cinema la coperta è sempre troppo stretta. Se il ministero dava i soldi ad uno, non li dava ad un altro; quindi, una volta terminati i dieci autori importanti, tutti gli altri rimanevano a casa. Ora, invece, ci sono più opportunità e c’è un mercato globale, perché tu non fai il film solo per il tuo piccolo paese, ma per tutti. Se vuoi, anche la qualità dei prodotti si è alzata. Determinate fiction mediocri, che anni fa venivano proposte dalle reti televisivi nazionali, oggi sono improponibili. Quindi, ringraziamo le piattaforme, perché rappresentano un mondo di opportunità, un po’ come lo fu la nascita del web. Io vengo dal teatro, ma, magari, fossi nato prima la mia palestra sarebbe stato YouTube. Poi, quando esci nei cinema, a meno che tu non rientri tra i tre o quattro big, hai sempre l’impressione di partecipare alla Formula uno correndo con una Cinquecento. Stefano Sollima, mio carissimo amico, prima di arrivare al cinema ha girato serie televisive di grande qualità.
Cosa pensi di realizzare in futuro per il cinema?
A me piace molto far ridere, ma io sono molto appassionato anche di crime, quindi mi piacerebbe raccontare quel mondo. Ci sto lavorando, è un po’ prematuro parlarne. Mi piace raccontare storie diverse. Inoltre, io amo tutto Pasolini, tutto Bertolucci e considero Elio Petri il nostro Stanley Kubrick, perché per me è un genio uno che gira Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto, La decima vittima e Todo modo. Un film che, dopo averlo fatto, potresti tranquillamente morire, è C’era una volta in America, perché lì c’è tutto, amicizia, potere, crimine, mistero, Shakespeare. È un film che reputo quasi la perfezione. Tra l’altro, mi piace molto Elvjs e Merilijn di Armando Manni. Quando scrivevo da giovane per il teatro ero più cattivo, ora invece mi piace dare speranza, pensare che l’essere umano si può trasformare. Il mio sogno è avere la possibilità di continuare a fare film, perché sono contento di quelli che ho girato e mi rappresentano. Il mio è il lavoro più bello del mondo.
Francesco Lomuscio
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