Mondospettacolo incontra il regista Francesco Patierno e il cast de La cura

Presentato in Concorso Progressive Cinema presso l’edizione 2022 della Festa del cinema di Roma, La cura è il film attraverso cui il cineasta napoletano Francesco Patierno – autore di Pater familias e Il mattino ha l’oro in bocca – rilegge liberamente il celebre romanzo La peste, scritto da Alberto Camus.

Abbiamo incontrato il regista insieme agli interpreti Alessandro Preziosi, Francesco Mandelli e Francesco Di Leva.

 

Come è nata l’idea di questo film?

Francesco Patierno: È nata quindici giorni prima che scoppiasse il lockdown, perché coi produttori c’era voglia di raccontare ciò che si sentiva nell’aria a causa di questa minaccia incombente di cui nessuno immaginava quel che poi sarebbe accaduto. Io mi sono ricordato de La peste di Camus, che avevo lasciato a metà qualche anno prima. L’ho ripreso e, con grande sorpresa, mi sono reso conto che raccontava qualcosa che stava succedendo e faceva anche riflessione più alta. Poi, quando abbiamo iniziato le riprese durante il lockdown più brutto, quello della città presidiata dalla polizia e dall’esercito, mi sono reso conto che quello che stava succedendo a noi della troupe era materiale molto importante per il film. Quindi, in corso d’opera queste due linee parallele della realtà e della finzione dovevano unirsi narrativamente. In questi giorni, quando finalmente ho visto il film finito, mi sono reso conto che è attinente anche all’attuale tematica della guerra, perché non dimentichiamo che in Camus la pandemia era un pretesto per raccontare il nazismo e la Seconda Guerra Mondiale. Per gli appuntamenti tra sceneggiatori ci vedevamo di nascosto nei vicoli, sbirciando per vedere se c’era la polizia (ride).

Francesco Di Leva: Sì, sembrava quasi lo spaccio della cultura (ride).

 

Nel film Alessandro Preziosi si cimenta in un monologo rientrante di sicuro tra le cose più belle della sua carriera…

Alessandro Preziosi: Avendo fatto teatro, la memoria è una cosa che sorregge l’evocare qualcosa che appartiene a te, al luogo dove lo fai e dove reciti. In questo caso è stata l’arma che mi sono trovato in più. Fare quel monologo è stata una delle esperienze più significative e importanti, non solo perché con il teatro si è abituati ad imparare pagine e pagine per poi buttarsi dentro e non poter più tornare indietro, ma anche perché Francesco Patierno per venticinque ciak ininterrotti non mi ha dato nessun tipo di indicazione, lasciandomi nel panico più totale. Un po’ perché pensavo non andasse mai bene e aspettavo il ciak giusto, un po’ perché, essendo un monologo pieno di grandissima componente evocativa della circostanza in questione, l’elemento fondamentale è stato Patierno, il quale, solo dopo qualche giorno, mi ha detto “Non ti ho detto nulla perché volevo che tu agissi responsabilmente e scrupolosamente sulla base di ciò che sentivi e non del mio punto di vista”. Questo è stato un atto di fiducia che non ho mai avuto in tutta la mia carriera.

Francesco Di Leva: Tra l’altro, dovete sapere che lui, ogni volta che entrava nell’auto del runner che lo accompagnava sul set, recitava il monologo (ride).

 

Francesco Mandelli è forse la prima volta che si cimenta in un ruolo così drammatico e “serio”…

Francesco Mandelli: È la prima volta che io esco dal seminato in maniera così decisa, sono sempre stato abituato a fare la commedia che, tra virgolette, è il mio primo amore, poi, però, secondo me si va avanti nella vita e dentro ti si aprono cose nuove. Per me, per esempio, è stata molto importante la nascita di mia figlia. Anche la stessa pandemia, in quel momento ti smuove delle cose dentro e vai a pescare, magari, un po’ più in profondità rispetto a prima. Io ho sempre avuto voglia di fare cose non scontate, di togliermi dalla zona di comfort. Quindi, ben venga questo tipo di progetto, il fatto che Patierno mi abbia dato fiducia forse anche perché gli serviva quel personaggio lì: un attore che, in qualche modo, viveva nel film l’esperienza di andare a girare un film diverso durante il lockdown. Per poi trovarsi smarrito e quasi avere voglia di tornare indietro. Io non ho mai avuto voglia di tornare indietro, ho sempre avuto un grande piacere ad essere sul set e a fare quel personaggio, che credo collimi abbastanza con la mia persona.

 

Rispetto alla pandemia voi che tipo di reazione avete avuto?

Alessandro Preziosi: La pandemia ha totalmente privato il mio quotidiano da ciò che esso doveva avere, di volta in volta, nel lavoro e nelle cene di ritrovo rispetto ad un’educazione che è sempre condizionata dal tuo stato d’animo. Improvvisamente c’è stata una piattezza di vita che mi ha dato la possibilità di entrare in contatto con quello che realmente sento. E credo che un attore, un artista abbia come obiettivo questo: fare i conti con ciò che ha plasmato per poi non ritrovarsi nulla in mano. Il Covid a questo è servito per me, a guardare questa enorme opportunità di tutto quello che ho in casa, tra libri, familiari, telefonate, amici e di preservarli anche quando la pandemia finirà. Il libro e il film si uniscono sotto un unico comune denominatore: conciliarsi con l’idea di morte per determinare un’uguaglianza tra le persone, regole che vengono rispettate da tutti nel tentativo di essere pronti a soccorrere l’altro. Di queste cose la politica non può parlare, non ha mai parlato in maniera chiara. Non sono presenti in nessun protocollo e decreto legge e, forse, sono invece lo strumento attraverso cui la gente può tornare ad avere maggiore scrupolo coscienzioso nei confronti della condivisione di uno spazio. La cura, quindi, si può vedere come bignami di letteratura perché il libro dice delle cose con estrema chiarezza,  come film che destruttura totalmente il concetto di film stesso e lo rende accessibile a capire la maniera in cui si costruisce un film nel film. Attori che fanno loro stessi e diventano personaggio, o, nel mio caso, personaggi che poi, attraverso le parole che gli vengono messe in bocca, evocano la propria esperienza personale.

Francesco Mandelli: Io non ho mai avuto paura, essendo cresciuto in casa di un medico la morte in casa nostra è sempre stato un tema. Da un certo punto di vista, sembra che alcuni si siano accorti della morte solo dal 2020 in avanti. Non bisogna mai aver paura, perché è quella che ti frega. Anche il film dice che bisogna avere coraggio. Per me quello della pandemia è stato un percorso bellissimo, un’occasione di crescita, sia umana che professionale. Durante la pandemia abbiamo anche cominciato a consumare tantissimi contenuti, serie dalla mattina alla sera. Quello mi è sembrato un po’ troppo, io non vorrei che la sala morisse, ma che ci sia il coraggio di continuare ad andare al cinema.

 

Francesco Di Leva interpreta un personaggio che, inizialmente, non sente la vocazione che scopre poi, invece, durante la pandemia…

Francesco Di Leva: Il mio è un personaggio che accoglie il dolore, che lascia anche andare una moglie malata pur di occuparsi degli altri. Questa è una cosa che, in realtà, ognuno di noi durante il lockdown ha avvertito. Occuparsi di se stessi, ma anche degli altri. Questa è una componente che mi ha interessato molto rispetto al personaggio e a ciò che stavo vivendo io in quel momento storico. Le promesse fatte erano gli abbracci che vediamo nel finale. Quante volte, allora, ci siamo visti e detti “Peccato che non ci possiamo abbracciare”. Oggi che lo possiamo fare, ci siamo dimenticati di quello che ci siamo promessi di fare. È un film dove il silenzio che abbiamo ascoltato nelle nostre città è presente e ci può far ricordare delle promesse che abbiamo fatto alle persone cui vogliamo bene.

 

Nel film si avverte molto il silenzio che abbiamo vissuto ai tempi della pandemia…

Francesco Patierno: In realtà io trovo che la musica sia molto presente, ma se mi dici questo mi rendi la persona più felice del mondo. Questo è un film a cui tengo molto perché mi rappresenta al mille per mille, sia nel bene che nel male. C’è tutto me stesso, ho avuto una libertà incredibile e l’ho sfruttata fotogramma per fotogramma, ho messo dentro al film ogni mia idea di cinema e istinto nel metter in campo una messa in scena che mi rappresenta, che non è convenzionale. Sicuramente, ho voluto creare qualcosa di complesso e di semplice al tempo stesso. L’obiettivo finale, comunque, era quello di emozionare, non di sorprendere. Ho voluto mettere tantissime cose perché secondo me potevano portare ad un’emozione, ad un racconto lineare. La sceneggiatura, comunque, era precisissima, non un canovaccio. Era il testo di Camus paro paro, chiaramente modificato nel linguaggio in alcune parti.

 

Francesco Di Leva può raccontarci del suo rapporto sul set con Antonino Iuorio?

Francesco Di Leva: Devo. È stato qualcosa di bello, perché io non conoscevo Antonino artisticamente, non avevo mai lavorato con lui prima di questo film. Mi sono trovato bene con lui, come anche con tutti gli altri, Poi Patierno sa creare l’atmosfera giusta per un progetto comune in cui le persone devono stare bene insieme. Quindi, non abbiamo fatto nient’altro che divertire e divertirci. Tra l’altro, tutte le comparse che vedete nel film sono veri medici e infermieri.

Francesco Patierno: Ad un certo punto c’è anche Ascierto che saluta. Lui lavora principalmente sui tumori ed è andato anche sui tg. Comunque, nel film c’è molto del nostro vissuto. Per esempio, mio padre era un magistrato e Alessandro ha lavorato indossando alcuni vestiti del padre, venuto a mancare poco tempo prima.

Alessandro Preziosi: Mio padre era un penalista, quindi spesso mi capitava di seguirlo e di voler essere sempre presente pur di non stare a casa. Recitare a La cura è stato, di conseguenza, un po’ una liberazione. Il concetto che mi ha affascinato è il concetto della morale: il comportamento dei singoli determina la morte di altri.

 

Francesco Lomuscio