È la conoscenza intima del mare, della sua bellezza, delle contraddizioni che spesso invertono l’egemonia dello spirito sulla materia ad animare il carattere d’ingegno creativo nel documentario Breath, diretto dall’esordiente regista Ilaria Congiu.
Nata in Senegal, cresciuta nel Bel Paese alimentando la passione per l’informazione, la cultura e la poesia, compendiate dall’aforisma del compianto Moitessier ne La lunga rotta che introduce l’incipit di Breath: “Non si chiede a un gabbiano addomesticato perché di tanto in tanto provi il bisogno di sparire verso il mare aperto. Ci va e basta, è un fatto semplice come un raggio di sole, normale come l’azzurro del cielo”.
I diari di bordo dell’iconico scrittore e navigatore Bernard Moitessier, che citi nell’incipit di Breath, inizialmente erano contraddistinti dall’asciutto ed essenziale resoconto dei fatti. Sulla falsariga della legittimazione strumentale. In seguito l’amore crescente per la cultura, oltre che per il mare, lo ha spinto ad aggiungere al resoconto delle scelte fatte e delle situazioni affrontate il valore della riflessione. Credi che lo stesso possa avvenire nell’ambito della contemplazione del reale ad appannaggio dei documentari quando la verità nuda e cruda cede il passo alla potenza dell’invisibile che solo la poesia può portare a galla?
Assolutamente sì. Un documentario, oltre che veritiero, può essere poetico. Ne ho visti tanti di documentari incentrati sul rapporto d’amore col mare. Anche se, prima di dedicarmi esclusivamente a Breath, non riuscivo più a vederne uno sino alla fine. Compreso il celebre documentario shock Seaspiracy che denuncia lo sfruttamento intensivo dei mari. Sono lieta che sia uscito su Netflix e ritengo certi film d’impegno civili utili. Perché spingono gli spettatori ad acquisire coscienza del tema trattato e a innescare il passaparola discutendone. Ma non sono riuscita a concludere la visione perché a parer mio c’erano troppe informazioni. A discapito d’una scappatoia per far capire al pubblico, al di là del quadro dettagliato e drammatico ivi prospettato, che il mare è la nostra risorsa più preziosa sul pianeta terra. Ed è quindi doveroso andare oltre l’operazione esclusivamente di denuncia provando a esibire la forza significante di questa bellezza proveniente dal mare. Per me la ricerca della poesia è fondamentale. Compresa quella che ho composto insieme al pescatore Domenico per chiudere il cerchio. Servirsi della bellezza irradiata dalla poesia consente di prendere per mano gli spettatori e condurli, attraverso una sorta di diario di bordo, alla piena conoscenza del mare. Anche perché non tutte le persone possono godere del privilegio di coltivare un rapporto con il mare in modo quotidiano. Passare ogni tanto accanto a questa bellezza, che è profonda, non la si vede del tutto, s’intravede, e fa paura, attiene a qualcosa di sporadico. Di superficiale. Osservarla da vicino, scoprendola man mano, attiene davvero alla potenza dell’invisibile e quindi alla poesia. Che non è una cosa astratta quando in ballo c’è il mare. Bensì è eminentemente concreta. Lo dimostra l’immagine della gabbia dei tonni in Breath con cui ho voluto spingere gli spettatori a riflettere su quanta bellezza viene così imprigionata.

Con le reiterate riprese della gabbia dei tonni, in cui affiora sia la necessità pratica d’inquadrarla in campo lungo sia quella evocativa congiunta all’implicito monito, hai cercato di far sentire agli spettatori quello che hai sentito tu scoprendola?
Sì. Volevo che gli spettatori ne prendessero pienamente coscienza. Mi sono imbattuta per la prima volta nella gabbia dei tonni quando ero inviata Rai sulle navi di Sea Shepherd Italia e sono rimasta sconvolta, trovandomela accanto, dalle sue dimensioni mastodontiche: equivale alla metà d’un campo di calcio. Abominevole! Mi è sembrata una cosa illegale. La totale ignoranza al riguardo ha innescato la mia sete di conoscenza. Ci si sente un po’ tonni. Parte, cioè, d’un sistema molto più grande di noi. Ed è stato perciò importante inquadrare un tonno che nuota controcorrente. Nella direzione opposta alla spaventevole ed emblematica gabbia. La tua considerazione riguardante la necessità pratica ed evocativa al contempo del campo lungo è azzeccatissima. Si trattava di mostrare nell’interezza dell’inquadratura una cosa enorme voluta dalle alte sfere. Mostrarla proprio dall’alto era dunque necessario per esprimere un punto di vista critico ed evocare l’incanto del fluire dell’acqua in gabbia.

Cogliere dal vivo questo incanto attiene infatti alla poesia. Per realizzare Breath ed esibire il mix d’incanto e disincanto connesso al mare hai dovuto quindi compiere pure un’elaborazione critica su un tema così sentito?
Volevo essere più sincera possibile. Sono cambiata tanto durante il processo d’incubazione che ha preceduto le riprese di Breath. All’inizio si stava prospettando la realizzazione d’un film diametralmente opposto a quello che è venuto fuori. Ho attraversato varie fasi ed è stato difficile riuscire a raccontare una storia così profondamente sentita attraverso molteplici esperienze. Mi serviva una chiave di lettura che riuscisse ad amalgamare sentimenti e pensieri diversi ma convergenti.
È possibile perciò mettere d’accordo cuore e cervello, che secondo Woody Allen non si danno nemmeno del “tu”, in un documentario intento a unire la conoscenza intima del tema trattato con le qualità analitiche ed ergo intellettive?
È un’impresa spossante. Infatti, prima di realizzare Breath, nei laboratori a cui ho partecipato i professori, esperti dell’argomento in questione, mi hanno fatto presente la difficoltà di riuscire a informare ed emozionare il pubblico con un tema così ampio nonché arduo. Da una parte è giusto avere un approccio fattuale, supportato dai numeri, cercando pure quelli alternativi; dall’altra serve pure mettere la pancia per suscitare le emozioni. Anche degli spettatori meno avvertiti sulla bellezza degli ecosistemi più ricchi di biodiversità da preservare. In realtà ogni spettatore afferra, pure se non immediatamente, il senso della scrittura per immagini che innesca la cosiddetta sospensione dell’incredulità. Ed è la sospensione dell’incredulità a facilitare l’impresa di mettere d’accordo cuore e cervello.

A volte le immagini spiegano in maniera già esaustiva cose ribadite dalla voice over, come il cambiamento silenzioso del mare e la necessità di avere risposte. È il giusto compromesso per mettere d’accordo elementi in apparenza agli antipodi?
La voice over è stata il mio tallone d’Achille. Ritenevo che la scrittura per immagini fosse sufficiente per esprimere la mia idea complessiva sul rispetto e l’amore che bisogna nutrire per il mare. Io mi fido ciecamente del pubblico e so che ha le capacità deduttive per tradurre in chiaro i messaggi legati alle immagini. Alla fine ho accettato la scelta di aggiungere la voice over cercando, con notevole sforzo e numerose prove per capire se funzionasse o meno, di farla più mia possibile. Per attenermi comunque al proposito d’informare ed emozionare.
La laurea che hai conseguito in giornalismo, e lo stato di non essere nascosto relativo alla parola greca aletheia che anima l’aspetto deontologico di questa professione, ti ha aiutato nel proposito dichiarato d’informare ed emozionare spettatori ignari di temi quali la perdita di biodiversità, i mutamenti climatici e l’ossigeno emanato dal mare?
Non ho alcun dubbio in proposito. Sono due le cose che mi hanno fornito l’aiuto decisivo per realizzare Breath tenendo fede all’obiettivo iniziale. In primo luogo, non lo dico per tessergli le lodi, gli stimoli ricevuti da mio padre sono serviti a ricercare il perché delle cose che si sentono ma lì per lì facciamo fatica a capire del tutto. È l’attitudine del bambino che scopre il mondo porre a ogni piè sospinto determinate domande. Ed è un tratto distintivo che mi è rimasto anche da adulta. La laurea in giornalismo, grazie agli studi fatti in Francia dove hanno un’impostazione molto pratica nel processo d’apprendimento dei ferri del mestiere, mi ha spianato la strada per tutte le ricerche svolte per questo documentario. Ed è stato anche difficile scegliere cosa mettere e a cosa rinunciare. Perché era tutto d’estremo interesse.

Informare ed emozionare può convertire, come si auspicano alcuni esperti ottimisti di conservazione degli ambienti marini, gli spettatori da parte integrante del problema a parte integrante della soluzione?
Come sostiene mio padre nelle battute conclusive di Breath finché c’è vita, c’è speranza. Un giorno Rym Benzina Bourguiba, mentre stavamo affrontando l’argomento, mi ha detto che l’impasse al riguardo consiste nell’incapacità di comunicare della scienza. Che giustamente si attiene alla divulgazione negli appositi contesti culturali e sociali. Attivare compiutamente la capacità critica in maniera empatica, anziché scientifica e basta, implica la condivisione dei sentimenti. Oltre che dei pensieri. Il cinema ha modo di tradurre la miriade d’informazioni rivelatorie in possesso della scienza in chiave immediata ed emotiva accrescendo in tal modo il grado di consapevolezza dello spettatore. D’altronde viviamo tutti di emozioni ed è lì che risiede lo stimolo maggiore per informare toccando le corde giuste. Il mondo, lo ribadisco ogni volta che posso, non si cambia col malumore. Bensì con l’opportuna dose di leggerezza e consapevolezza. Altrimenti puntando unicamente il dito, lanciando strali contro questo e quello, si ottiene l’effetto contrario. La gente così si sente stigmatizzata, bloccata, contrariata. Si finisce per allontanarla dalla causa invece di avvicinarla.
Quanto ti è servito il supporto ricevuto nell’ambito del carattere d’ingegno creativo da Luca Carrera al montaggio per spingere gli spettatori ad avvicinarsi alla fitta rete d’informazioni ed emozioni legate agli eventi fisici che si verificano in mare?
Già il lavoro svolto ex ante nella fase di scrittura ed elaborazione è riuscito a fungere da stimolo per spremermi le meningi avvalorando la mia ossessione sugli interrogativi a cui rispondere e sull’interazione tra riflessioni ed emozioni da innescare in una raffigurazione compatta su carta delle immagini, dei movimenti di macchina, del processo creativo ivi congiunto. Un’idea, insomma, definita sin nei minimi particolari. Ed è stato importante partire sapendo per filo e per segno dove andare a parare. Girando in modo piuttosto discontinuo mi ha inoltre permesso di correggere il tiro in corsa. Nella fase in itinere. Quando, nella fase ex post, sono arrivata in montaggio, seppur forte di un’impostazione estremamente definita, ho dovuto prendere atto che era un momento basilare per concludere il processo creativo iniziato ex ante e in itinere. Con Luca fortunatamente si è instaurato immediatamente un rapporto di grande stima. Basato sul confronto continuo anche in merito a punti di vista differenti sui pezzi del film da assemblare ad hoc e su quelli da scartare. Lui ha iniziato a montare le immagini sulla base della sua personale capacità di discernimento. Per come sentiva le cose. Mi sono ritrovata la gabbia dei tonni all’inizio. Sul momento mi è preso un colpo. Poi, grazie al rapporto di fiducia suggellato dalla schietta stima reciproca, ho capito che certe scelte, seppur differenti dalla mia, non intaccavano affatto la libertà d’invenzione necessaria per informare ed emozionare. Bensì costituivano un fulgido valore aggiunto. Il confronto in questi casi è fondamentale perché davvero, a lavoro finito, tendendo conto della corrispondenza di pareri compositi ed elementi visivi differenti, si può sul serio tenere fede al proposito di partenza. È stato bellissimo. E quindi mi corre l’obbligo ringraziare Luca per una collaborazione che ha senz’altro lasciato una traccia destinata a durare. Per me Breath è un figlio comune e credo che questo sentimento traspaia dal lavoro svolto da entrambi.

Anche dall’abilità nello scrivere con la luce dei direttori della fotografia Marco Petrucci e Gabriele De Palo. In merito invece all’aiuto decisivo fornito pure dalle testimonianze ricevute, nell’ambito in particolare del senso d’appartenenza, Ibrahima Saib, che ha lavorato tanti anni con tuo padre nell’esportazione del pesce in Senegal, costituisce il legame del passato con l’avvenire. Quanto conta conoscere il passato per guardare all’avvenire senza rifugiarsi nei luoghi comuni dei “laudatores temporis acti” per cui quello che è accaduto prima è sempre meglio di quello che accade oggi?
Quello che rimpiango del passato è che prima c’era un equilibrio tra natura ed essere umano. L’impatto era determinato dalla necessità di nutrirsi. E l’essere umano prendeva dalla natura quello che era disponibile. La voluttà egocentrica di piegare ogni cosa conforme all’ordine naturale ai propri capricci e alle proprie voglie costituisce un’innegabile involuzione. Per me ora come ora si tratta d’una soluzione primaria: torniamo un pochino indietro; cerchiamo di prendere autenticamente spunto da come l’uomo si rapportava con la natura nel passato. Certo sono stati commessi errori anche prima ma non è una lode casuale quella che attribuisco al passato come maestro di vita. Una cosa è il rimpianto ossessivo di chi sostiene che ai suoi tempi era tutta un’altra camminata, le cose andavano bene, perché è una lagnanza fine a se stessa. A volte si paga anche dazio agli errori commessi nel passato. Ma per costruire un futuro degno è necessario trarre linfa dagli insegnamenti del passato. Da ciò che si è perso. E merita, nella maniera più assoluta, di fungere da monito per un verso e da stimolo per un altro. In modo da mettere pienamente in luce gli intoppi legati al mare e capire quali soluzioni adottare ai fini di un’idonea inversione di tendenza.
D’altronde il tuo scopo è mostrare questi intoppi e nello stesso tempo il fascino esercitato dalle meraviglie del mare su chi non può vivere senza. Come l’apneista Alessia Zecchini. La videoripresa subacquea con cui sei riuscita a catturarne l’immersione in Breath ha comportato il dover partire dall’abc per apprendere come si deve questa tecnica di ripresa o ti sei affidata all’istinto?
Sono felice che mi fai questa domanda perché è stata una comica tra l’altro. Erano le prime riprese del documentario.
Sei partita da quelle toste.
Intelligenza sublima la mia, no!?

In fondo tutto quello che viene dopo è meno complesso.
Certamente una scelta così, seppur azzardata sotto certi aspetti, se non altro per un’esordiente, mi ha permesso d’indirizzare subito le immagini nelle viscere di ciò che avevo fermamente intenzione di esibire e approfondire. Intanto mi sono affidata a un alacre ed esperto operatore subacqueo. Anche se sono avvezza alle immersioni, in quanto istruttrice subacquea, e sebbene rimanga ligia al modus operandi di stare dietro a tutto, perché rientra nei compiti d’ogni regista riuscire ad amalgamare i vari fattori tecnici ed espressivi, ritengo che sia importante pure saper delegare. So fare le riprese, adoro stare dietro la macchina da presa, però si rischia di commettere dei danni se non si antepone un sano senso del limite al delirio d’onnnipotenza dei factotum. Nondimeno sulla scorta dello sfrenato entusiasmo che mi accompagna da sempre sono stata appiccicata all’operatore sott’acqua. Per capire al meglio la tecnica da usare, tenere d’occhio la luce dell’ambiente e controllare con solerzia le inquadrare appropriate.
Un’intensa full immersion. Anche perché sott’acqua si può usare poco lo zoom, non bisogna mettere i soggetti controluce, la gestione della messinscena è complicata e questo tipo di riprese ha nell’inobliabile L’Atalante di Jean Vigo un antesignano difficile da emulare.
Infatti per non lasciare nulla al caso Alessia è stata costretta a immergersi un bel po’ di volte. È andata via la corrente. Mi sono persa una pinna. Ci siamo persi a un certo punto. Ma alla fine ha vinto la testa dura. D’altra parte la scena da girare l’avevo ben chiara in testa: l’avevo scritta accuratamente. Passare poi dalla teoria alla prassi ha comportato una serie d’imprevisti ai limiti del ridicolo involontario. Però l’autoironia per un verso e saper insistere per l’altro aiutano parecchio a uscire da qualsiasi impasse: come si dice, chi la dura la vince.

Una prova del fuoco, seppur sott’acqua, niente male. No?
Specie considerando che era il primo giorno. Infatti ho subito scritto alla produzione, una volta archiviate le riprese subacquee, di essere sopravvissuta. Ad ogni modo è stata un’esperienza tosta ma ricca di stimoli.
Hai specificato che in merito agli stimoli per non mollare davanti a uno sforzo comunque non indifferente, quelli decisivi li ha dati tuo padre. Che nella sua professione rappresenta l’egemonia morale della pesca artigianale su quella morale. Un concetto che suonerebbe tedioso e ampolloso se le sequenze che lo ritraggono, sottintendendo la sua saggezza nel sottosuolo dei gesti, non fossero contraddistinte da un’opportuna spontaneità di tratto. Come l’hai conseguita?
Ovviamente ci tenevo molto ad appaiare la mia storia personale a quella delle altre scongiurando il rischio di cadere nella tentazione dell’iperbole. Anche Luca ha vegliato molto su questa assoluta necessità di riuscire ad amalgamare con la giusta misura la mia vicenda personale al quadro d’insieme. Mio padre, comunque, com’è nel documentario è com’e nella vita vera: pronto cioè a stemperare nel valore terapeutico dell’umorismo gli eccessi della retorica e ad anteporre alla pesantezza la giusta dose di catartica leggerezza. La scena finale l’abbiamo dovuta girare due volte perché siamo stati investiti da un’onda. La continuity m’era sfuggita di mano. Per convincerlo a girare di nuovo ho dovuto spiegargli l’importanza della continuity per rendere la narrazione fluida ed evitare errori a discapito della sospensione dell’incredulità. La sua spontaneità, tipica della persona, lontana anni luce dalla parvenza di sembrare del personaggio, è diventata, grazie alla prerogativa di rimanere sempre se stesso, un valore aggiunto risolutivo per consolidare l’indispensabile sospensione dell’incredulità. Inoltre il fatto che il direttore della fotografia Marco Petrucci conoscesse benissimo mio padre è divenuta la ciliegina sulla torta per conseguire la spontaneità di tratto a cui hai fatto di riferimento pure nell’ambito delle sequenze che ci ritraggono uno accanto all’altra. Sdoppiarmi era complesso. La spontaneità raggiunta l’ha reso facile. Anche perché la fragranza della sincerità riscontrabile nella passione reciproca per il mare, che mi spinge ancora a porgere tanti interrogativi come quando ero bambina, ha fatto capire a mio padre la forza e la naturalezza di questo nostro inalienabile legame.
Che unisce all’affetto l’autentico rispetto. Che, balza agli occhi, nutri anche per il biologo della pesca Silvio Greco. Lungi dal montare inutilmente in cattedra. Pronto invece ad appaiare all’alta densità lessicale delle sue dissertazioni la spontaneità del linguaggio vernacolare che annulla le distanze. Questa capacità di presa immediata è un invito a dire le cose come stanno?
Avevo l’imbarazzo della scelta nell’ampia lista di divulgatori ed esperti delle questioni concernenti l’incanto e i problemi degli ambienti marini. Sono rimasta folgorata dalla capacità di Silvio d’informare ed emozionare chi l’ascolta con il supporto decisivo dell’ironia. L’inquadratura del suo faccione colmo di toccante umanità quando, parlando del problema della dispersione dei rifiuti in mare, sostiene che la plastica da mangiare, così come idea, non faccia proprio bene, sottintendendo l’importanza del riciclo di quei materiali, ai fini d’uno stile di vita davvero sostenibile e d’una conoscenza debitamente diffusa, la porterò sempre nel cuore. Riprendere una sua lezione all’Università delle Scienze Gastronomiche di Pollenzo, svelando l’arcano sulle navi dei veleni e su quelle invece dei sogni dove saper cucinare diventa una risorsa irrinunciabile, è stato un privilegio che ha permesso al documentario di abbeverarsi alla cultura di un esperto che dice appunto le cose come stanno. Specificando che per il mare bisogna, prima d’innamorarsene, avere innanzitutto rispetto.

Lo stesso rispetto profondo che ha per il mare l’appassionata divulgatrice tunisina Rym Benzina Bourguiba, fondatrice dell’associazione La saison bleu, soprattutto quando ci ricorda che se le foreste sono il nostro polmone verde, l’oceano è il nostro polmone blu. Anche per lei il mix d’affetto profondo e rispetto doveroso per il mare deriva dalla figura paterna. I vincoli di sangue cementano quelli col mare?
Rym è giunta, per cosi, in corsa nel progetto di Breath. Sono rimasta piacevolmente colpita da un articolo che la riguardava in quanto era in prima fila nel denunciare il pericolo d’inquinamento dovuto a una petroliera che trasportava tante tonnellate di gasolio dall’Egitto a Malta affondata al largo della costa sud-est della Tunisia. Un pericolo che era ritenuto scongiurato dalle alte sfere. Che Rym invece contraddiceva con cognizione di causa ed estrema fermezza. Il suo amore viscerale per il mare è stata la molla che mi ha spinto a contattarla. Quello che Rym ribadisce può sembrare banale alle persone superficiali ma invece è vero ed estremamente profondo: per proteggere bisogna amare; però per amare, bisogna conoscere. Sono tre concetti chiave. Avvalorati dalla passione trasmessale dal padre. Un’esperienza davvero comparabile alla mia. Che evidenzia in effetti il connubio dei vincoli di sangue con quelli per il mare. La sua grinta mi è servita, ribadendo la forza di questi legami, a mostrare le stridenti ed emblematiche contraddizioni in seno a un fenomeno della natura diviso tra meraviglie assolute e problematiche difficili da risolvere.
L’aforisma finale del pescatore, che dice “Noi non siamo nati al mare ma il mare che è nato dentro di noi”, in ultima analisi taglia la testa al toro e condensa il senso di Breath in maniera più immediata ed esaustiva dei segnali cifrati tanto cari ai film d’autore. La saggezza popolare sfugge agli intellettuali alieni all’ordine naturale delle cose ed ergo alle cose come stanno veramente?
Non è stata una passeggiata di salute rompere il ghiaccio con Domenico Mendolia. Per lui comprarsi un peschereccio, dopo infinite tribolazioni, ha costituito un’impresa. Per seguire le orme del padre Salvatore. Quando l’ho conosciuto, misurandone lo spessore come persona, riservata, genuina, con un mondo dentro, sono impazzita. L’ho voluto a tutti i costi nel documentario. Per vincere la ritrosia d’entrambi ad aprirsi, specie davanti alla macchina da presa, mi sono calata nelle inedite vesti di regista-pescatrice. Per cogliere l’interazione tra sensibilità e risolutezza che anima il figlio Domenico, nonostante le difficoltà pratiche della vita di tutti i giorni a bordo del peschereccio, insieme al valore della semplicità. Sancito dalla saggezza popolare. Che fa effettivamente difetto a quei presunti intellettuali a cui piace allungare il brodo. A volte in quaranta secondi, con parole semplici, sulla base di un’esperienza vissuta giorno per giorno sulla propria pelle, si esprimono concetti profondissimi. Che inducono alla riflessione, su un mondo tutto da scoprire, ed emozionano. Proprio in virtù della loro semplicità carica di senso. Che dovrebbe essere la prerogativa di tutti i film. Compresi quelli d’autore.
Photo credits: courtesy by Ilaria Congiu
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