Mondospettacolo incontra Lech Majewski e il cast di Valley of the Gods

Il regista polacco Lech Majewski è unanimemente ritenuto un Autore. Con la “a” maiuscola. L’emblematico rapporto tra cinema e territorio gli sta molto a cuore. Al pari dei valori pittorici che riescono ad appaiare insieme all’interesse estetico quello interiore.

Dieci anni fa l’intenso ed evocativo film I colori della passione, con i personaggi ritratti nel quadro Salita al Calvario di Pieter Bruegel che prendevano magicamente vita, gli permise di conquistare il Vecchio Continente. Ora con Valley of the Gods, girato per lo più nella terra sacra dei Navajos, è il cosiddetto Nuovo Mondo, dove Lech si è ormai stabilito in pianta stabile, l’obiettivo finale? Staremo a vedere.

In attesa di conquistare l’America, luogo per antonomasia dell’immaginario collettivo, la possibilità di approdare a breve nel mercato primario di sbocco della fabbrica dei sogni, al termine di un periodo da incubo per le sale cinematografiche, anche se non permette di chiudere il cerchio, scalda senz’altro i cuori degli addetti ai lavori. Lo conferma la presenza all’appuntamento con la stampa degli esercenti. Claudio Puglisi, in rappresentanza della società di distribuzione Lo scrittoio, che in collaborazione con CG Entertainment lancerà il film in Italia dal 3 Giugno 2021, tiene a sottolineare: “Ci siamo subito innamorati di Valley of the Gods. È stato amore a prima vista. E un ulteriore impulso alla riapertura. La centralità della sala cinematografica consente agli spettatori di scoprire, lontano dalle piattaforme, storie come quella narrata attraverso una scrittura per immagini originale. Che merita l’irrinunciabile cornice del grande schermo”. Manca John Malkovich. Impegnato su un altro set. Ma sono in molti a domandarsi se gestire un divo del suo calibro, con la facoltà di dire la propria nella scelta delle inquadrature più lusinghiere, a scapito magari dei vari fattori espressivi da governare ad hoc, sia stata una risorsa o una iattura. La risposta del diretto interessato non si è fatta attendere: “In effetti c’è chi mi aveva messo sull’avviso. D’altronde si tratta di una star internazionale. Assai ubbidiente e gentile tuttavia nei confronti delle indicazioni fornitegli dal sottoscritto. S’è instaurato un bel rapporto. Imperniato sulla fiducia reciproca.

La sua forte personalità è quindi un valore aggiunto. E non un ostacolo. Perché unita alla disponibilità”. Emerge, inoltre, l’annosa distinzione tra cinema commerciale, ritenuto privo di mistero e ergo d’interesse, e cinema d’autore. Che manda in brodo di giuggiole i critici alla ricerca di uno sguardo originale sul mondo. Fuori dall’ordinario. Anche in questo caso Lech Majewski si è dimostrato interessato a mettere i puntini sulle “i”: “Ho voluto a tutti i costi esprimere una mia idea. Basata sulla conoscenza del popolo Navajio, sul confronto-scontro tra modernità e tradizione, tra ricchezza e povertà. La molla dell’ispirazione è partita dalla consapevolezza che i soldi non danno la felicità, che certe gabbie dorate meritano di essere scoperte e approfondite dall’interno. Allo stesso modo dei territori eletti a location dove gli opposti coesistono. Sono stati questi profondi contrasti a spingermi a girare Valley of the Gods. Non certo la ricerca commerciale dell’incasso corrispondendo alle attese delle masse. Le masse vanno sorprese”. Tuttavia ammette che, al pari dei cospicui richiami ad alcuni prestigiosi numi tutelari, da Stanley Kubrick a Federico Fellini, da De Chirico a Dino Buzzati, estendendo il campo, anche l’intesa di Bruce Wayne con Pennyworth in Batman, simbolo della cultura pop, è servita per riempire i tasselli dell’intera scacchiera. Gli interpreti, comunque, lungi dal venire confinati al rango di mere pedine, si sono immedesimati con signorilità ed entusiasmo nei rispettivi personaggi. Specie il vegliardo Keir Dullea. Reclutato nella parte del maggiordomo, analogo appunto ad Alfred Pennyworth, dell’eccentrico miliardario incarnato da Malkovich.

L’anziano ma vispissimo attore, divenuto celebre nei panni dell’astronauta David Bowman in 2001: Odissea nello spazio di Kubrick, vittima dell’ammutinamento del supercomputer HAL 9000, ha voluto rimarcare un’affinità elettiva che suona come la più gratificante delle attestazioni di stima: “Ho lavorato agli ordini di registi di prim’ordine (Otto Preminger, Michael Anderson, Mark Rydell, il nostro Sergio Sollima). Ma Kubrick è quello che somiglia più a Lech per quanto concerne l’ingegno della cifra stilistica. Partecipare a un film sotto la guida d’un maestro ricco di umanità ed estro costituisce un’esperienza unica. E pure una bella avventura”. L’avvenente Bérénice Marlohe, che ricordiamo nel ruolo di Zoey in Song to song di Malick, ha aderito alla sensuale ed estatica Karen Kitson nella consapevolezza di dar voce all’animo femminile in un’opera contraddistinta, se non dominata, dalle ingombranti presenze maschili: “L’incomparabile densità poetica che affiora sin dal copione risiede nell’attenzione riposta in ogni singolo individuo. Sia uomo sia donna. Si parla dell’essenza della vita. E del viaggio che affrontiamo come individui. Ed è così che io la vedo”. Resta da stabilire se il senso d’incanto, di terrore, d’inobliabile scoperta, a braccetto con l’addomesticata psicotecnica e i requisiti cardine del film d’arte, finirà in una bolla di sapone o darà i frutti sperati. L’ultima parola spetterà al pubblico. Seduto nel buio della sala. Illuminato dall’indomita cinefilia.

 

Massimiliano Serriello