Mondospettacolo incontra Pupi Avati per il suo ritorno all’horror con Il signor Diavolo

Pupi Avati è semplicemente uno dei più grandi autori del cinema italiano. Indifferentemente di ieri e di oggi, del 1968 quando ha iniziato (da Balsamus l’uomo di Satana a La mazurka del barone, del,a santa e del fico fiorone, film strani e stranianti, diversi dalla filmografia imperante allora) e di adesso, come testimonia il nuovissimo Il signor Diavolo, dal 22 Agosto 2019 in sala.

Ieri come oggi, grazie alla sua incredibile capacità di saper raccontare le emozioni, di centrarne il peso e il significato, di capirle e sapere restituirle nelle sue storie, Avati ha sempre trovato la chiave giusta per raccontare vicende uguali e diverse, in punta di penna che, però, esplodono dopo, dentro.

 

Come avvenuto per le altre tue opere dell’orrore, La casa delle signore buie, tuo ultimo libro, ha una caratteristica che non è facile trovare in altra roba di autori “puri” di genere, ovvero fa paura. Mi chiedevo se Pupi Avati, dall’alto della sua carriera pluridecennale, ha una formula matematica per riuscire nell’intento, perché sa quali tasti premere nel lettore, nello spettatore. Oppure scava nel proprio vissuto e mette in scena i “suoi” fantasmi? 

Mah, sono molte delle cose che hai giustamente detto, come il fatto di essere stato educato in un ambito culturale contadino, quindi favolistico, che privilegiava la fiaba spaventevole che era frequentissima. O anche perché il culto dei morti era molto presente, i defunti, dal momento in cui venivano a mancare, ma anche prima della loro morte, parlavano dell’esperienza con le altre persone, e si andava a vedere, si andava a baciare sul letto, in agonia, il moribondo. Ho dei ricordi molto nitidi, molto precisi di quelle morti nella mia infanzia in campagna. Poi quel tipo di religiosità preconsiliare per cui il prete minacciava i bambini, e i peccati obbedivano a delle categorie molto nette. Era tutto un mondo spaventoso, dall’imbrunire in poi, e attraverso quel buio ci faceva entrare in una dimensione, in una realtà che chi vive la quotidianità oggi non trova da nessuna parte. Io non mi sono mai tanto emancipato da quel tipo di cultura.

 

Leggevo qualche giorno fa che Mario Bava aveva paura quasi di tutto e ha fatto film terrificanti. Per poter girare film che fanno paura, un regista deve avere paura?

Assolutamente. È evidente. Non si può bluffare con i sentimenti primari. Se non ti commuovi quando giri una certa scena, vuol dire che il film non sarà commovente, se non ridi nel momento in cui scrivi una commedia, difficilmente gli spettatori rideranno. Ed è così per la paura: quando sei davanti alla tastiera, di notte, e premediti certe situazioni che poi hanno a che fare molto con l’artista e che sembrano impossibili, nel momento in cui le giri diventeranno possibili, ancora più reali.

 

Hai detto di aver girato con Il signor Diavolo un film d’identità, nel senso che è profondamente tuo, anche perché negli anni ti sei circondato di un cast e di una troupe quasi fissa, con gli stessi collaboratori. Oggi uno dei problemi del cinema italiano, considerando che ci sono tanti registi e sceneggiatori molto bravi, è forse nel come vengono girati i film, nel come si affrontano le difficoltà produttive e sul set. Forse si tratta della mancanza di quell’identita di cui tu parli?

Credo ci sia un deficit di apertura all’improbabile. I film che si fanno oggi obbediscono alla realtà, a storie richieste dal popolo abituato alla fiction italiana di massa. Che poi chiede storie nelle quali il pubblico si possa identificare, quindi quelle più ordinarie e normali possibili, con degli inserimenti trasgressivi che sembrano diventati scandalosi. Quindi non si può andare oltre a quello che ti suggerisce la realtà, mentre le cinematografie più evolute, ma che hanno anche più successo, sono quelle che hanno portato il blocco della realtà, che sono andate altrove, che ti raccontano storie impossibili, improbabili, che vanno nel futuro, nel passato più remoto, che ricostruiscono dei mondi. Ecco, io credo che il cinema abbia avuto questo compito, ma noi registi non lo abbiamo assolto, da un certo punto in avanti ci siamo spaventati dei generi. Se tu pensi che forse il regista più sfrontato che abbia mai avuto il cinema italiano si chiama Sergio Leone, che era uno di Trastevere e faceva western come se fosse nato sulle montagne rocciose. Questa immaginazione messa al servizio degli sceneggiatori per portarli in quell’altrove, ecco. Gli americani continuano a praticarla, noi l’abbiamo completamente disattesa e continuiamo a fare le commedie che riguardano lui, lei, l’amico di lei e l’amante di lui, lei che ha perso il lavoro, lui che ha scoperto che è diventato gay, ma non ci si sposta più di tanto da queste quattro o cinque cose che succedono nella vita.

 

A proposito di film, la macchina da guerra avatiana è riuscita in qualsiasi campo o genere, dalla commedia all’horror, dal libro al musical, alla fiction, senza segni di cedimento… 

Eh, ma la fatica c’è, eccome. Per fare poi un film di genere come quello che ho fatto io adesso, Il signor Diavolo, ho avuto non tanti, ma tantissimi “No”. Ho dovuto bussare non so a quante porte che si sono chiuse prima di trovare un distributore che accettasse il film. Non ho mai avuto tante negazioni per un progetto della mia filmografia. Dall’altra parte della scrivania in questo momento ci sono sicuramente delle persone poco accorte e molto miopi, non illuminate, l’interlocuzione è piuttostto scadente, pensano solo ai numeri e quando vuoi fare un film che deve incassare tanto ma poi non incassa la sconfitta è doppia, perché hai rinunciato, magari, ad un progetto di qualità per qualcosa che doveva fare cassetta e non l’ha fatta.

 

Ma esiste ancora qualcosa, un obiettivo non raggiunto, un traguardo per guardare ancora più avanti?

Da molti anni rincorro un film su un personaggio italiano enorme che è stato sempre dimenticato, sminuito. Sogno di vendicare Dante Alighieri rispetto alla distrazione dimostrata da sempre nei confronti di questo genio per il quale dovremmo avere una riconoscenza infinita, e invece….. Adesso ricorrono i cento anni dalla morte, speriamo qualcuno mi dia il via.

 

GianLorenzo Franzì