È un tema tabù, o se non altro completamente ignorato dalla fabbrica dei sogni, quello degli incubi a occhi aperti delle figure perennemente di fianco al cinico mondo dello spettacolo underground. Che l’alacre ed eclettica attrice e regista barese Anna Piscopo, trapiantata a Roma, affronta nel film d’esordio Mangia!, tratto liberamente dalla sua omonima pièce teatrale, sovvertendo il limite dell’ipocrita buon gusto. Per esibire, mediante l’ampia accezione evocativa dell’atto di mangiare in eccesso, la fame di successo degli eterni dilettanti allo sbaraglio. Destinati a tornare a casa con le pive nel sacco.
Il ritmo sgangherato e rapsodico della storia raccontata dall’avvertita scrittura per immagini può piacere o non piacere, per via dello stile corrosivo ed eccentrico, ma la profonda umanità emersa altresì in questa intervista trascende qualunque perentorio impressionismo soggettivo. Perché è evidente che Anna ha raccontato, preso in giro e approfondito qualcosa a cui tiene con tutta se stessa.
Il compianto Galliano Juso ha convertito in prassi la remota ipotesi di trasformare il tuo spettacolo teatrale Mangia! in un film d’essai che esula se non altro dalla produzione ordinaria. Ci vuole un produttore davvero straordinario per riuscire ad anteporre la scelta di lasciare agli autori all’esordio la libertà creativa necessaria a tal fine rispetto all’ingerenza esercitata di norma dai diktat commerciali e dai limiti di spesa stabiliti?
Galliano era realmente un produttore straordinario perché amava con ogni fibra del suo essere il cinema. Aveva uno spirito artistico quasi impossibile da trovare nelle figure professionali che danno la precedenza all’aspetto remunerativo del prodotto cinematografico. Gli sforzi compiuti per riuscire ad appaiare alla natura inevitabilmente mercantile dei film di un certo pregio artistico la libertà creativa da concedere agli autori, anche se alle prime armi, al di là del diktat del profitto, hanno costituito per certi versi il suo tallone d’Achille sotto l’aspetto meramente pratico. È stata quindi pure la sua sfortuna l’ondata di amore per i film interessanti sulla carta ma difficili da realizzare. Galliano non si è arricchito. È morto senza un euro. Però porto nel cuore il ricordo d’un uomo ricco di umanità ed entusiasmo per il suo lavoro. Che forse non sapeva fare bene i conti. Tuttavia sapeva benissimo il tipo di cinema da portare in sala in quanto faceva parte del suo mondo interiore. Allergico alle banalità. Penso che il mio film s’inserisca bene nel mondo interiore lasciatoci in un certo senso in eredità da Galliano. Il nostro è stato innanzitutto un incontro artistico. Servono quindi produttori sensibili ed entusiasti come lui. Sono certa che ne esistano altri. Io ho avuto la fortuna d’incontrare nella mia strada un produttore della sua levatura in primo luogo umana e poi ho avuto la sfortuna di vederlo coniugare la sua vita all’imperfetto. Una vita spesa fino all’ultimo per il cinema. All’insegna dell’autentico amore per il cinema diverso dallo standard che regala agli spettatori emozioni destinate a durare nel tempo.

La scrittura per immagini di Mangia! richiama alla mente la cifra stilistica di alcuni irriverenti mostri sacri della macchina da presa. Da John Cassavetes a un altro John pieno di acume ed estro fuori del comune: Waters. Che sosteneva quanto segue: “Prendo in giro le cose che amo, non quelle che odio”. Il valore terapeutico dell’umorismo e anche dell’autoironia è quindi un toccasana per uno status d’autorialità scevro da qualsiasi forma di mera alterigia?
Senz’alcun dubbio. Inoltre preservare l’ironia, la capacità piuttosto rara di prendersi in giro, di ridere dei propri affanni attraverso il filtro dell’arte che trascende il mero grigiore dell’esistenza, attribuendogli una notevole varietà di prospettive, è qualcosa addirittura di rivoluzionario. Perché essere ironici vuol dire mettere in discussione tutto. Ribaltare un ordine naturale delle cose inteso come tale ma che invece non lo è. In un momento così drammatico in cui gli uomini continuano ad adoperare strumenti di distruzione di massa per far valere ragioni discutibili, dettate da biechi interessi e propositi di dominio, l’ironia resta l’unica arma lecita da padroneggiare per esprimere un dissenso senza usare la violenza. Per non perdere il senso di umanità. Che risiede pure negli aneddoti divertenti, se non esilaranti, congiunti agli assilli esistenziali e alle ingiurie giornaliere. Anche fare un film o anche un’intervista significa esercitare una forma di potere rispetto a chi non ha la possibilità di esprimere la sua opinione. Si tratta d’un pulpito per cui serve una grande responsabilità. Il senso di umanità, cementato dall’ironia, aiuta quindi ad allontanare qualsiasi ridicolo delirio d’onnipotenza e ad avvicinarsi agli altri responsabilmente. Il compito dell’arte risiede pure in questo.
La didascalia introduttiva dello scrittore e maestro buddista giapponese Daisaku Ikeda mette subito le carte in tavola sul tema di Mangia!: “Proprio come un fiore sboccia dopo aver sopportato il rigido freddo invernale, un sogno può avverarsi solo se si è preparati a sopportare i tormenti che ne accompagnano la realizzazione e a compiere tutti gli sforzi necessari!”. La conoscenza intima del tema trattato elude il rischio di cadere nell’impasse delle idee prese in prestito dai nani sulle spalle dei giganti?
Non ci piove. Non potrei mai raccontare qualcosa che non mi appartiene, che non conosco o che non ho la curiosità di conoscere. La conoscenza sulla propria pelle del mondo da rappresentare sulla scorta degli apposti strumenti artistici, che si distinguono da quelli dozzinali, vengono prima dell’arte stessa. Gli autori al cinema esprimono un loro mondo interiore o dicono la propria su un mondo che hanno setacciato a fondo per conoscenza diretta sul campo per così dire. Non si può raccontare in termini intellettuali ed emotivi, attraverso il rapporto tra immagine e immaginazione, un mondo che non si conosce. O si conosce solo ed esclusivamente in modo superficiale. La conoscenza del mondo da rappresentare, sullo slancio del valore aggiunto dell’autoironia, nonché del senso appartenenza agli spicchi di vita da esibire sul grande schermo, ha quindi la precedenza. L’immaginario dell’artista viene dopo: chiude il cerchio. Il percorso spirituale è sotto la pelle del mio film Mangia!. Attiene all’immaginario. Ma soprattutto resta parte d’un mondo vicinissimo a me. Ed è per questa ragione che ironizzo sulla meditazione. Che resta una cosa alla quale tengo in maniera particolare. Su cui però è lecito scherzare. Perché fa bene allo spirito. In quanto è un modo per depotenziare qualsiasi forma sbagliata di autoritarismo ivi connessa ed esibire appieno il senso di umanità che alberga, tanto in prassi quanto in spirito, anche nelle persone ritenute perdenti. Come gli artisti di nicchia. Che non si fila nessuno. O quasi.

Agli occhi d’uno spettatore superficiale sembrerebbe che il mondo degli artisti di nicchia, perennemente alla finestra, con canzoni come Luna mezzo mare di Lou Monte reinterpretate sulla falsariga di Carrey Mulligan in Shame con New York, New York, ti sta più a cuore rispetto al cibo. Il concetto biunivoco associato pure sotto l’aspetto metaforico all’atto di mangiare risulta di presa immediata. Il lavoro di sottrazione congiunto all’eccessiva assunzione del cibo sul versante concreto appare più ermetico. Quel è il motivo di questa scelta?
È stato un lavoro di sottrazione fortissimamente voluto. Anche perché, come hai giustamente dato a intendere, non mancava certo il cibo a Catania. Il motivo per il quale ho voluto anteporre la tendenza a togliere anziché ad aggiungere qualcosa concernente le aspettative ingenerate negli spettatori, sin dal titolo, poi nella metafora associata alla bulimia, risiede nel proposito di realizzare un film non regionale. Intendo connotato sul piano enogastronomico dalle prelibatezze e dai manicaretti d’un determinato posto. Ho voluto realizzare, o se non altro mi sono sforzata di farlo, un film in cui ogni persona si può identificare al di là delle connotazioni identitarie. In questo senso è stato fondamentale togliere. Sottrarre. Per cogliere la crudezza oggettiva riscontrabile nell’hinterland di qualsiasi metropoli italiana. Se non mondiale. La bulimia è un bisogno inesausto di successo, di consenso, di affetto che non si placa mai. Caratterizzato dall’eccesso. Per controbilanciarlo era perciò necessario adottare un lavoro di sottrazione in grado di svelare col pudore della poesia sommessa il senso di sfruttamento, di solitudine emotiva, di attanagliante alienazione legata alla bulimia. Che andava più sfiorata ed evocata che esibita a ogni piè sospinto. Per offrire qualche dettaglio sporadico, magari disperato ed estremamente disturbante nello spasimo del momento, nondimeno fedele all’accensione figurativa conferme ai tormenti romantici. Celati dalla voluttà di uscire dell’anonimato. Di trovare un palco. Di tramutare i fischi in applausi. La bulimia è anche consumismo, è anche lavoro precario, è anche instabilità. È solitudine affilata. È inquietudine. Tutte faccende vanno trattate col giusto rispetto e approfondite, al fine di non cadere nei limiti delle opere a tema che mostrano tanto ma spiegano poco, per mezzo del sottosuolo degli imprescindibili momenti pudichi ed elegiaci contemplati dall’opportuno lavoro di sottrazione.
Al di là dell’interazione tra personaggi eccentrici ed estetica trash, che dimostra come l’oscenità sia dovuta al cinismo di chi calpesta i sogni degli artisti di nicchia preferendo triviali tendenze di punta anziché a una mancanza di pudore sessuale, emergono degli scompensi voluti nella narrazione impreziositi dalla spontaneità di tratto degli interpreti non professionisti che sembrano impersonare se stessi e le loro dissipatezze. Gestire, oltre a garantire, queste doti di naturalezza è stato un impegno spossante o stimolante?
Entrambe le cose. Il senso di mancanza che c’è dietro la bulimia in tutti gli ambiti necessitava della spontaneità degli attori non professionisti presi dalla strada. In possesso della naturalezza necessaria ad aderire all’universo che rappresento. Nel sottoproletrariato che aspira a salire i gradini della scala sociale, a vincere i talent, a invertire la rotta sgradita. La verità, che attiene alla cosiddetta università della strada, era dipinta nei loro volti, nel gioco fisionomico, nella naturalezza. Una verità estremamente difficile da gestire. Da incanalare. Ma alla fine ce l’abbiamo fatta.

Parli al plurale. Il lavoro di squadra portato a termine da una troupe esigua ma tosta è stato basilare tanto quanto il sovraindicato lavoro di sottrazione?
Sì. Perché siamo stati come una famiglia. Pronti a sostenerci a vicenda. Sulla base della mutua solidarietà. Lontani da qualunque forma d’inutile esibizionismo. Abbiamo marciato tutti nella stessa direzione. Per far emergere tutta la verità. Riguardante pure, se non soprattutto, le strade di Catania. In cui i membri della troupe e gli attori non professionisti, provenienti realmente dalla strada, si sono raffrontati nel modo più consono e utile. Per collaborare allo scopo di conseguire il medesimo obiettivo.
La scelta obbligata di girare a Catania, anziché a Bari, ha innescato l’idonea scoperta dell’alterità permettendoti di trovare un territorio eletto a location in grado di riverberare profondamente, nei suoi anfratti sviliti dal deterioramento, l’altalena degli stati d’animo. Quanto conta la geografia emozionale nel tuo modo di concepire il cinema?
Conta enormemente. E hai perfettamente ragione: è stato la scoperta di qualcosa di altero e quindi di diverso da quello a cui era abituata che girando in loco è divenuto familiare. E Catania era davvero la città ideale dove girare questo film fatto, come dici tu, di deliberati scompensi nel ritmo narrativo. Ma anche di luoghi periferici. Tutt’altro che superficiali ed esornativi. Giacché in grado di rispecchiare il cuore pulsante, gli abbattimenti, gli slanci di chi vi abita. Di chi li vive nella quotidianità. Di giorno. E pure di notte. La decisione di puntare su questa location così azzeccata è stata di Galliano Juso. E quindi ancora una volta gli dobbiamo dire grazie. Il modo in cui la città e i suoi abitanti hanno influito sulla riscrittura di scena del mio film accresce il senso di gratitudine personale che sento nei riguardi di Galliano. Che mi ha permesso di affinare il modo di concepire il cinema sulla base della forza significante del territorio scelto per diventare uno spazio attivo di un film che Galliano per primo ha visto nello spettacolo teatrale. Distante mille miglia dal valore rappresentativo e dalla modalità di presenza del paesaggio riflessivo dove collocare ad hoc questi personaggi ai margini affamati di successo e d’affetto.

Nel tuo modo di concepire il teatro l’ambito off partendo dal basso costituisce altresì una sorta di trampolino per arrivare in alto ed essere “in” restando fedele al contempo alla capacità di tirare fuori bizzarrie e ubbie in seno a una società a corto di valori?
Non è difficile per me rimanere fedele a una cifra stilistica ed espressiva che risiede nel descrivere, sia pure con toni bizzarri e mordaci, le tribolazioni di chi vive ai margini. Sono ancora molto povera; mi considero anch’io un personaggio ai margini! In questo modo è facile essere coerenti. Spero, a parte gli scherzi, di rimanere sempre fedele al mio sguardo come autrice. Anche se dovessi conseguire risultati soddisfacenti pure sotto l’aspetto remunerativo, rimarrei lo stesso tipo di regista. Non mi sentirei ugualmente distante da un habitat che considero basilare per potermi esprimere sia al cinema che al teatro. Il teatro resta la mia grande passione. Ed è il luogo ideale per sperimentare le tue idee grazie al contatto diretto col pubblico. Durante la realizzazione di Mangia! sono stata a stretto contatto con il montatore. Che si chiama Edoardo Viterbori. Un ragazzo di venticinque anni molto brillante. Non avevo mai montato. Però ci tenevo ad appaiare in maniera convincente le sequenze di scene analoghe e simultanee ambientate in scene differenti perché era importante sotto l’aspetto stilistico ed espressivo. L’esperienza maturata in teatro, tastando la reazione del pubblico in continuazione, mi ha fornito spunti decisivo in tal senso. Per stare sempre sul pezzo collaborando al meglio con Edoardo per esprimere esattamente il disagio, le speranze, le dissipatezze, le illusioni parallelamente al ritmo del racconto. Profondamente legato alle pause, alle accelerazioni, agli sguardi che contraddistinguono ogni atmosfera dilatata in virtù d’una corrispondenza mirata di elementi significativi. Elementi ispiratemi proprio dal teatro. Che mi aiutato sul versante pratico a convertire al cinema e soprattutto al montaggio il senso del ritmo appreso sul palcoscenico a contatto col destinatario: il pubblico.
In Mangia! alcune tecniche di straniamento rappresentano un valore aggiunto. Quanto contano elementi filmici come la dilatazione temporale, lo slow motion, il fast motion e il match-cut visivo per ottenere la risposta empatica d’un pubblico d’essai raccontando qualcosa che ti sta davvero a cuore?
Conta tantissimo. Il cinema, come è stato detto in più circostanze, è una questione di tagli. Di correzioni in corso d’opera. Di movimenti di macchina che hanno un significato ben preciso. Di elementi filmici che rallentano la realtà o l’accelerano per alzare la soglia dell’attenzione del pubblico. Per accrescere il processo d’identificazione con la storia che si racconta attraverso le immagini. Unite tra loro riproducendo azioni talvolta contrapposte. Creando altre volte un contrasto speculare. Di fondamentale importanza per la creazione cinematografica. E soprattutto per veicolare le emozioni attraverso la tecnica. Spingendo lo spettatore a riflettere. Oltre a emozionarsi. Esercitare un ascendente positivo, anche solo in parte, nella vita di un’altra persona, è un inno alla speranza. Io credo fortemente che il cinema possa modificare in meglio l’immaginario degli spettatori rendendoli in tal modo individui più sensibili e soprattutto più avvertiti.

L’anello di congiunzione tanto sospirato tra la sensibilità artistica che esprimono il mondo interiore dei loro autori e il grande pubblico allergico ai dispendi di fosforo, trascinato però nell’egemonia della contemplazione poetica sull’azione fine a se stessa, non resta quindi un’utopia?
Modificare l’emotività degli spettatori per mezzo della scrittura per immagini, del sentimento ad essa congiunto, del desiderio di comunicare, senza intoppi tra destinatari ed emittenti, dell’inserimento, anche in corso d’opera, d’elementi filmici colmi di senso. Mi dispiace solo che la politica distributiva non permetta agli spettatori che non frequentano i festival o i circoli elitari di scoprire film in grado di stimolarli, di affinarne il gusto ed emozionarli profondamente. La rete diffusionale che mira a procurare il massimo numero di spettatori non si cura certo di accrescere la loro curiosità nei confronti di film che esulano dall’ordinario. Il mio sogno, che non è certo legato all’incasso, risiede nell’attirare un’ampia fascia di pubblico con storie che vanno oltre il circuito d’essai.
Privilegiare il carattere d’ingegno creativo congiunto a quelle che Enzo Siciliano definiva le slogature delle emozioni gioca un ruolo importante per esibire quell’anelito vitale alieno a qualsiasi vana artefazione?
Te la faccio breve: non vedo un altro modo per lavorare ed esprimere le mie idee, il mio immaginario, il mio punto di vista sul mondo che circonda e sul sottosuolo spesso ignorato dal cinema che va per la maggiore. Conosco solo ed esclusivamente questo modo di fare cinema. Le emozioni confezionate o artefatte non rientrano nel mio modo d’intendere la vita. Le emozioni fragranti, urticanti, schiette, che vanno sottopelle, m’ispirano. Spingendomi a realizzare opere viscerali che non percorrono binari prevedibili. Che invece spiazzano ed emozionano. In virtù d’una serie di spunti, anche improvvisati, che costituiscono una sorta di laboratorio per me, per gli attori e specialmente per gli spettatori. Cogliendo in un certo senso la realtà dal vivo.

Aspettare il momento propizio per cogliere la verità dal vivo tocca un punto nevralgico nel lavoro compiuto con la virtù di scrivere con la luce. I valori figurativi spingono tutti i tipi di platee a immergersi in un ritmo dominato più dai disaccordi che dagli accordi cari a Woody Allen?
Sono molto grata al direttore della fotografia. Lui ha una concezione del mondo diametralmente opposta rispetto alla mia. Ha realizzato anche un film da regista. Temevo quindi una sua ingerenza. E, invece, il direttore della fotografia, pur non condividendola del tutto dal punto di vista stilistico ed espressivo, l’ha rispettata appieno. Incanalandola nelle molteplici possibilità della scrittura con la luce. Attenendosi alle mie indicazioni. Si tratta d’un potenziale fascinatorio enorme che veicola l’attenzione degli spettatori in dettagli ed elementi minimali che altrimenti non noterebbero per niente.
Con la correzione di fuoco spingi chiunque guardi il tuo film a voler vederci chiaro in merito al coraggio di essere felici. Esteriorizzare il proprio immaginario diventa così qualcosa di concreto?
È la risposta d’una necessità umana. Ancor prima che espressiva. Tirare fuori la voce fino in fondo attraverso la tecnica cinematografica, compresa la correzione di fuoco da un soggetto all’altro a cui hai fatto riferimento, mi permette di esprimermi a trecento sessanta gradi. Di comunicare la mia identità conciliando pensieri ed emozioni.
In Mangia! spesso la luna fa capoccella in un contesto altrimenti dominato dall’egemonia del disincanto della satira irriverente sull’incanto consolante. Ci vuole coraggio pure per restare, sotto la scorza cinica della satira, delle inguaribili romantiche?
Hai perfettamente ragione: sotto la pelle del mio film, dell’apparente irriverenza, del rifiuto categorico degli stilemi melensi da soap-opera, del degrado, del carattere d’autenticità nudo e crudo, dei personaggi fuori degli schemi, degli stereotipi presi di mira, alberga il cuore pulsante di un’inguaribile romantica. Ebbene sì: lo confesso! L’incontro con Mustafà, che è un vero homeless, rappresenta un istant movie che mi porto nel cuore. Che costituisce un attimo prezioso di tenerezza ed evasione dalla trasgressione, dalla satira, dalla denuncia delle ipocrisie che imperano nel mondo dello spettacolo e in quello del lavoro in generale. In fondo sono dei segni evidenti della tenerezza che c’è in me. Secondo te prevale il disincanto sull’incanto. Il cinismo sulla tenerezza. Secondo me alla fine è un 50 e 50.
Photo credits: Martina Mammola e Giuditta Nicosia
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