Con il film d’esordio Nel bagno delle donne – disponibile in esclusiva su MioCinema – il regista Marco Castaldi offre momenti abbastanza bizzarri, sulla scorta dei timbri parodistici legati alla commedia di costume, aggiungendovi un risvolto sentimentale di per sé piuttosto curioso.
Giacché incompatibile, sia in prassi sia in spirito, con il fiele della derisione. Contemperare l’acre sarcasmo sociale e la dolcezza congiunta a ogni anelito di speranza sul versante intimistico costituisce una palese contraddizione o un’abilità? L’incipit, scandito dagli slogan popolareschi e ammiccanti degli ormai prevedibili brani rap, non basta ad assicurare al ritmo narrativo l’agilità del vincente che si vede alla partenza.
I siparietti domestici dell’immalinconito Giacomo Roversi alias Luca Vecchi, travet odierno licenziato dal pur indulgente capoufficio, con l’insoddisfatta consorte Stella Egitto risultano largamente scontati. A dispetto del virtuosistico utilizzo, sull’esempio di Woody Allen in Mariti e mogli, dei movimenti di macchina a schiaffo da un soggetto all’altro. La qualità del copione, redatto a quattro mani insieme ad Alessio Lauria, affiora invece, nell’ordine del burlesco e dell’avventuroso, estranei ai plagi dei nani sulle spalle dei giganti, quando il protagonista, al termine dell’ennesimo litigio coniugale, dopo aver girovagato per le vie della Città Eterna, entra in un cinema d’essai che antepone la visione delle opere d’autore a quella dei blockbuster. La penuria degli elementi spettacolari, la noia di piombo nel buio della sala immancabilmente semi-vuota, l’ingresso fortuito nella toilette per signore, le impuntature, frutto della voglia di dire basta, dinanzi ai tiri mancini del destino, mescolano le pieghe sarcastiche dell’affresco canzonatorio con l’esame comportamentistico dell’opportuna indagine introspettiva. L’esile spessore dell’analisi degli stati d’animo impedisce però al clima di complicità, creatosi a distanza, con la porta chiusa, tra Giacomo e l’esercente Valeria, una volta vinta l’iniziale diffidenza, di andare oltre la soglia del mero mestiere.
Ad arrancare è soprattutto l’avventizia tecnica di ripresa adottata per cogliere nella cornice derisoria, conforme a ogni teatro dell’assurdo, quel tanto di poetico, ed ergo d’irrazionalmente tenero, che alberga nel sottosuolo dei semitoni. Scovati lontano dal vacuo frastuono degli accenti macchiettistici. Mentre l’eco massmediatico prende piede senza contribuire ad accrescere lo spettacolo mordente, a causa del budget ridotto, la lucida requisitoria sul precariato, sui motivi d’incertezza connessi alla ricerca del lavoro, sull’assenza per di più degli spettatori sognanti, come ai tempi in cui la fabbrica dei sogni dava origine a lunghissime file ai botteghini, perde parecchi colpi rispetto alle premesse. La sensibilità ambientale, quantunque congiunta alla vena d’ironia che serpeggia sino all’epilogo per bilanciare gli accorati appelli lanciati contro l’indifferenza e il cinismo, paga dazio ad alcuni risvolti patetici alieni all’arguzia satirica. L’incoerente fonte di svago tradisce così velleitarie ambizioni intellettualistiche. Annacquate in seguito dalla tardiva egemonia del buon cuore sull’acume del cervello.
Anziché mettere allegria, nella filigrana dell’aneddoto stravagante sui personaggi di contorno e sulle figure lunari in evidenza, l’ultima parte smette di serbare quale modello Clerks – Commessi di Kevin Smith ed evapora gli spunti in grado di unire alle note gravi un controcanto debitamente spiritoso. L’inserimento di fiacche gag verbali all’interno dell’insolito rifugio, in equilibrio sul filo dell’andirivieni delle mordaci punture di spillo ai nemici del diritto al merito e dei trapassi psicologici che stringono nella malinconia, nuoce alla funzionalità del passaggio dall’algido sarcasmo al calore umano dell’umana pietas. Il bozzetto conferito dai persistenti, se non monotoni, riverberi visivi, con le frecce di Cupido destinate ad annullare le fragili barriere del nascondiglio di turno, nella piena osservanza della programmatica apertura all’ottimismo, stenta ad assemblare diverse zone d’inquietudine ed empatici mutamenti di rotta. L’imperizia di salvare capra e cavoli, associando nella spezzettatura del racconto l’aspra osservazione del reale all’appassionato ma velleitario fervore surreale, disperde il brio delle situazioni maggiormente intriganti. L’indubbia destrezza recitativa di Daphne Scoccia nel ruolo dell’energica Valeria non basta a sopperire all’impasse del cerchiobottismo. Nel bagno delle donne ci consegna perciò l’ennesimo ritrattino tragicomico. Che, per sorreggere l’ovvia morale della favola, indulge in fatui colpi di gomito ed echi triti e ritriti.
Massimiliano Serriello
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