La lista dei film incentrati sul virtuoso ed emblematico rapporto tra cinema e territorio con la parola “land” nel titolo è assai copiosa. Da No man’s land di Danis Tanović, col vincolo di suolo trascinato in una trincea deserta nel pieno della guerra serbo-bosniaca, a Land of mine – Sotto la sabbia. L’intenso thriller introspettivo diretto da Martin Zandvliet che mostra gli inberbi soldati della Hitlerjugend costretti a guerra conclusa a disinnescare le bombe disseminate lungo la costa danese agli ordini d’un sergente dal pugno di ferro.
Senza dimenticare ovviamente Red land – Rosso d’Istria di Maximiliano Hernando Bruno, con le identitarie ed empatiche foibe simbolo dell’ordine naturale delle cose convertite negli atroci depositi dei morti colpevoli di non rinnegare il senso d’appartenenza in nome del falso livellamento egualitario, né il documentario This is my land… Hebron di Giulia Amati e Stephen Natanson. In grado di catturare nell’antica città dove è sepolto Abramo la molla scatenante sin dal tran tran quotidiano dell’insanabile attrito tra palestinesi ed ebrei.

Adesso è il turno, in merito alla medesima tematica, di No other land. Girato in tandem, con la collaborazione di Hamdan Ballal e Rachel Szor, dal giovane attivista Basel Adra appartenente alla comunità di Masafer Yatta e dallo scrupoloso giornalista israeliano Yuval Abraham. Decisi entrambi a incidere nell’opinione pubblica in merito all’empia sentenza dell’Alta Corte di Giustizia dello Stato d’Israele per cui le abitazioni dei pastori vanno distrutte al fine di sgombrare l’intera area, a discapito degli abitanti, e consentire alle truppe militari d’impiantarvi dei centri di addestramento. Al di là delle buone intenzioni di chi vuole sensibilizzare con un’idonea elaborazione critica gli spettatori su un argomento soggetto a una complessa controversia, sul versante della rivendicazione territoriale in ambito internazionale, il compito di un’opera che incornicia un’aspra realtà fonte d’infiniti dissidi, senza l’ausilio della psicotecnica recitativa come nei prodotti di finzione, consiste nell’esprimere valori artistici insieme a quelli umanitari. Inclini, spesso e volentieri, nel cadere, se non nelle banalità scintillanti della propaganda, nei limiti d’un punto di vista univoco. Di parte. Che taglia quindi con l’accetta del mestierante della comunicazione priva d’intoppi tra destinatari ed emittenti, ma aliena all’aura contemplativa della poesia capace di cogliere ogni controcampo, questioni difficili da chiarire appieno pure per gli esperti di diritto. Senz’alcun dubbio dibattere su una faccenda tanto spinosa a migliaia di chilometri di distanza veleggia sulla superficie.

Ad approfondire l’impervio impasse è assistere da vicino alla chiusura delle strade tra i villaggi, alla demolizione delle case, ad azioni di confisca eseguite coi nervi a fior di pelle. Per le vivide proteste degli incolpevoli sfollati e l’obbligo delle truppe di non procedere alla repressione armata dinanzi a rimostranze passive. Quali sono però i valori artistici espressi da No other land? L’inquadratura di profilo nell’incipit del coriaceo ma pacifico Basel, la voice over, determinate modalità esplicative, l’effigie dall’esterno delle baracche di lamiera e degli accampamenti di fortuna, si fa per dire, in tenda al posto dei canonici focolari domestici, vittime delle continue incursioni dell’esercito delegato a instaurare in loco una sorta di apartheid, stentano ad anteporre in fertile alternativa al ricatto morale d’un mero quadro lacrimevole l’appropriato governo degli spazi carichi di significati importanti ed emozioni fulgide. Impreziosite dall’espansiva maestria di mettere in contatto le platee di cinenauti con paesaggi mentali e mondi interiori. Connessi alla scoperta dell’alterità. Non si assiste a nulla di diverso nemmeno nella visita di cortesia dell’alacre Yuval all’interno del consorzio domestico dell’amico palestinese votato alla resistenza. Le testimonianze dei vecchi saggi, che la sanno lunga sui legami di sangue, il decoro riscontrabile nel fermo desiderio di mantenere intatto il culto dell’ospitalità pure in condizioni di estremo disagio, le pieghe dei vari caratteri, specie del cugino refrattario all’esperienza della non violenza, non bastano a scoprire la suddetta alterità.

È nella concitazione delle riprese di soppiatto, talvolta addirittura capovolte in seguito all’adrenalina a mille o ai prevedibili spintoni, degli scontri verbali dei contadini esasperati coi militari incaricati dei dibattuti sgomberi che subentra una spontaneità di tratto, frammista alla debita crudezza oggettiva, in possesso d’una gamma di moniti d’attualità degni d’encomio. Al pari del mix di trepide attese ed empiti di rabbia, ambedue penetranti, e del taglio asciutto dell’affresco generale. Mantenuto nei limiti dell’informazione culturale a braccetto con timbri antropologici ed etnografici di presa immediata. La prefissata elaborazione critica, dopo l’inizio programmatico, coglie perciò nel segno. Grazie pure ad alcune panoramiche a schiaffo apparentemente amatoriali. A ben vedere perfettamente conformi al sentimento d’insicurezza emanato dalle ruspe in agguato, dai generatori di corrente oggetto d’alterchi fuori luogo, dai parchi giochi schiavi di torbide palingenesi. L’attestazione fenomenologica trascende così la mera descrizione sociale di stampo caritatevole e polemico. L’ispirazione artistica, che colpisce allo stomaco, scalda il cuore e stimola riflessioni che esulano dall’ordinario, al contrario latita. D’altronde aspettarsi dall’avventizia scrittura per immagini di No other land la virtù di razionalizzare l’assurdo, ravvisabile in un’utopica concordanza esistenziale ed extraterritoriale e storica, celebrando così la fabbrica dei sogni, vuol dire pretendere troppo. Scandagliare gli incubi ad occhi aperti squadernati negli eventi minimi, oltre che in ingiustificabili atti terroristici, con i tafferugli che degenerano, necessitava invece di guizzi non pervenuti in un ambito pur debitamente nudo e crudo.
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