Dopo i fasti degli anni Sessanta, anche il western italiano conosce la sua fase di graduale declino: gli stessi registi sembrano accorgersene, dirigendo, dopo la metà degli anni Settanta, alcuni film che rappresentano “il crepuscolo degli eroi”, traducendo in immagini il tramonto del genere. Si tratta dei cosiddetti “western crepuscolari”, dove viene sgretolato il mito del west(ern), le terre assolate lasciano il posto al fango, gli eroi agli anti-eroi, tutti destinati inesorabilmente alla sconfitta. Nascono così alcune pellicole di culto, come Keoma di Castellari, Mannaja di Sergio Martino e California di Michele Lupo, ma anche I quatto dell’Apocalisse di Fulci, Una donna chiamata Apache di Giorgio Mariuzzo e Sella d’argento, ancora di Fulci.
Il film-simbolo di questa fase del western è lo struggente e spettacolare Keoma, dallo stile un po’ “alla Sam Peckinpah” (sparatorie al ralenti e sangue), ma che allo stesso tempo esce dai confini del genere per diventare una sorta di “western metafisico”. L’anno successivo, il 1977, vengono prodotti due film che cavalcano il successo del capolavoro di Castellari, cioè Mannaja e California, che hanno più di un punto in comune (soprattutto il primo) con la pellicola ispiratrice (vedasi, per esempio, la presenza costante del fango e l’utilizzo del ralenti nelle scene d’azione). Se California, con Giuliano Gemma, punta più sull’aspetto introspettivo, Mannaja è innanzitutto un prodotto di spettacolo e azione. La conferma di questo è data dall’attore protagonista, Maurizio Merli, il “commissario di ferro” per eccellenza del poliziesco italiano (Roma violenta, Roma a mano armata, Napoli violenta, Il commissario di ferro, Da Corleone a Brooklyn, solo per citare i principali). Attore dal volto duro e granitico, poco espressivo (è questo che richiedeva il suo ruolo) ma molto ruggente, dimostra di cavarsela bene anche con il western. Sergio Martino è uno dei più grandi registi del “cinema di genere” italiano, capace di spaziare abilmente dal poliziesco al thriller, dalla commedia all’horror, e anche al western, come dimostra non solo Mannaja, ma anche il precedente Arizona si scatenò…e li fece fuori tutti (1970) con Anthony Steffen.
Considerato solitamente un “figlio minore” di Keoma, in realtà Mannaja, al di là dei giudizi critici, è innanzitutto un gran bel film: diretto da Martino con la consueta professionalità, presenta efficaci ambientazioni crepuscolari (fango e nebbia sono le costanti del film), attori giusti nelle loro parti, ottime inquadrature, tanta azione (con numerose sequenze al ralenti) e tanta violenza.
Il soggetto (scritto dallo stesso Martino, che firma anche la sceneggiatura insieme a Sauro Scavolini) riprende in parte quello di Keoma, escludendo però la lotta fratricida e ogni connotazione metafisica. Maurizio Merli interpreta il cacciatore di taglie Mannaja, così soprannominato per la sua abilità nell’utilizzare l’omonima arma. Dopo aver catturato un bandito (Donald O’Brien), al quale ha mozzato una mano, torna nella sua città natale per vendicare l’omicidio del padre, ucciso dallo spietato affarista McGowan (Philippe Leroy) quando lui era ancora un bambino. Mannaja trova la fangosa città quasi deserta e completamente in mano a McGowan, proprietario delle miniere d’argento. Subito inizia la caccia all’uomo, ma il protagonista, approfittando anche della faida tra lo stesso McGowan e il suo crudele braccio destro Woller (John Steiner), fa piazza pulita di tutti gli avversari e si allontana nella nebbia da cui era arrivato.
Mannaja rappresenta, al pari di Keoma, la fine del mito del West e, indirettamente, è anche un riflesso del contemporaneo declino del genere western. Non c’è più spazio per gli eroi, semmai solo per gli anti-eroi: il confine tra “buoni” e “cattivi” è più che mai sottile (Mannaja non è poi tanto migliore dei suoi nemici, pur essendo animato dal “sacro fuoco” della vendetta), il tradimento è la norma (i personaggi di Donald O’Brien, John Steiner e Sonja Jeannine, cioè la figlia di McGowan, partecipano a un’ottima gara di squallore), il nemico, anziano e paralizzato, è già sconfitto prima dell’arrivo di Mannaja, e anche il duello finale nella nebbia viene smitizzato. I paesaggi assolati di leoniana memoria vengono sostituiti dalla nebbia e dal fango, mentre la città è deserta e “moribonda”: da notare, in proposito, come l’ambientazione sia valorizzata sia dalle inquadrature di Martino che dalla plumbea fotografia di Federico Zanni.
Ma, al di là di queste interpretazioni, Mannaja è innanzitutto un ottimo prodotto di spettacolo, una danza di sangue, morte e azione che assicura il divertimento allo spettatore. Le sparatorie sono abbondanti, dato che il protagonista è abile nell’utilizzare anche le pistole, e, sulla scia del modello di Castellari, Martino fa un uso frequente (e ottimo) delle le sequenze al ralenti, che dilatano l’azione enfatizzando il senso di morte e crepuscolarità. A cominciare dall’arrivo di Merli a cavallo, preludio a una delle scene più belle del film, cioè la mannaja che sibila nell’aria al rallentatore e taglia la mano a Donald O’Brien. Bellissimo e crudele è anche il massacro dei passeggeri della diligenza, sempre con l’effetto ralenti e con abbondanti schizzi di sangue, una scena che con un’abile montaggio viene alternata alla danza delle prostitute in paese (da notare la bella e brava Martine Brochard). Il ralenti enfatizza la drammaticità dei flashback in cui Mannaja ricorda l’uccisione del padre (Rik Battaglia) e rende spettacolare la morte di John Steiner, colpito dall’ascia in mezzo alla nebbia. Sergio Martino, nel suo secondo western, calca la mano sulle scene crudeli: il suddetto taglio della mano, l’uccisione degli inermi passeggeri della diligenza, il massacro dei minatori (sempre con dettagli sulle ferite e abbondanti spargimenti di sangue), senza dimenticare il pestaggio subito da Maurizio Merli e la sequenza in cui lo stesso Merli viene sepolto fino al collo con delle bacchette negli occhi (per farlo accecare dal sole).
Infine, ma non certo per ordine d’importanza, bisogna notare la straordinaria colonna sonora, scritta dai fratelli Guido e Maurizio De Angelis, autori di musiche eccellenti come quelle di Goodbye & Amen e Milano trema: la polizia vuole giustizia. Gli stessi De Angelis avevano firmato la colonna sonora di Keoma, e in Mannaja riprendono molto da vicino quello stile: una melodia “dilatata”, a volte lenta e a volte più ritmata, accompagnata da una profonda voce maschile che contribuisce a creare un’atmosfera ancora più grave e plumbea.
Davide Comotti
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