Nuestro tiempo, sebbene confermi l’attitudine del visionario ed esperto regista messicano Carlos Reygadas ad amalgamare stilemi apparentemente inconciliabili, come fece, ancor meglio, a dirla schietta, in Battaglia nel cielo e, soprattutto, in Post Tenebras Lux, è stato bocciato dalla censura del mercato.
Eppure, a ben guardare, il film palesa alcune cauzioni di commerciabilità perlomeno curiose. Relative al ricorso alla necessità espressiva dei campi lunghi, in chiave western, e all’interazione tra interni ed esterni che pongono in risalto l’egemonia della natura ed ergo dell’intensa spontaneità, in armonia col creato, rispetto alle contorte liti sentimentali. La connotazione romantica connessa all’effigie dei paesaggi percorsi da cavalli, muli e tori, talvolta imbizzarriti ed efferati finanche, seppur fedeli all’istinto belluino, privo della consapevolezza dell’ingiustizia commessa, al contrario delle crudeli dinamiche di coppia, che scoppia, diviene subito un antidoto alle vane elucubrazioni di stampo bergmaniano.
Sia pure poco incisivo come attore, nei mesti panni del cowboy avvezzo all’alta densità lessicale e dalla lacrima facile che accetta a malincuore il tradimento della consorte convinta di non averlo mai tradito col cuore, Reygadas dietro la macchina da presa sa il fatto suo. Ritornando, sotto certi aspetti, ad abbracciare gli stilemi della geografia emozionale, alla base dell’intenso ed erudito apologo sull’imperfezione degli affetti Silent Light, Nuestro tiempo cattura sin dall’incipit anche gli spettatori maggiormente scaltriti. Le corse sul fango, gli attimi ludici, il candore colto dalle carrellate stranianti, il confronto dell’infanzia con l’adolescenza, votata ai baci colmi di trasporto, richiamano alla mente tanto Il tempo delle mele di Claude Pinoteau quanto L’estate di Giacomo dell’arguto Alessandro Comodin. La rara virtù di riuscire ad appaiare l’accattivante immediatezza dei mélo, impreziositi dagli intermezzi spiritosi in forma di commedia, alla ricercatezza, frammista all’aura contemplativa della poesia aliena ai colpi di gomito, rende il film un’opera fuori dell’ordinario. Sorprendente, con il gusto dell’iperbole. Della trasgressione schietta, sapida, anticonformista. Al pari degli individui di bosco e di riviera. L’interazione fra habitat ed esseri umani stenta a sbrogliare i diversi motivi d’inquietudine. Sebbene costeggi con insolita finezza una visual culture degna del miglior Steve McQueen.
Ed è forse il punto di assoluta forza dell’intero prosieguo che svela lo stream of consciousness del triangolo amoroso scandito dalle voice over connesse agli scambi epistolari, nell’era delle nuove tecnologie, prima della pandemia, all’insegna del pluralismo dei punti di vista caro a Pirandello. L’attenzione alla parola, cui segue la replica mimica a ogni piè sospinto, rea d’indugiare troppo nell’estatico, con il rischio di tralignare nel pesce lesso perfino gli eloquenti silenzi in automobile dell’affascinante consorte fedifraga, inquadrata di profilo mentre il coniuge corre a cavallo sotto la pioggia per opporre una sorta di lavacro purificale allo squallido vaso di Pandora svuotato dalla gelosia repressa, persuade poco. A convincere, senza se né ma, è il lavoro di sottrazione che decanta le qualità dell’analisi dell’altalena degli stati d’animo mostrando solo la minima parte dei congressi carnali volti ad accrescere a lungo andare lo scoramento dell’insoddisfazione morale ed etica. Grazie alla nebbia evocativa che avvolge il ranch, cementando il passaggio a un contesto panteistico ricco di contegno ed etereo trasporto lirico, il crescendo collega i personaggi in spazi di confronto scevri dalla noia di piombo. L’insegnamento, infinitamente prezioso, di trasfigurare la realtà sulla scorta della forza significante dei match cut figurativi ricorda il parallelo in Rocky IV della moderna e algida palestra dove l’atleta bionico cede alla stanchezza col pugile dal cuore d’oro svelto invece a raggiungere attraverso l’autentico slancio dell’anima vette proibitorie ed estreme.
I falsi puristi, intimoriti all’idea di perdere qualche risibile quarto di nobiltà intellettuale, storceranno il naso, pur ignorando il filo di congiunzione anche in Post Tenebras Lux ad alcuni horror conformi ai brividi sinistri; tuttavia Nuestro tiempo, benché in modo assai compiuto, cattura l’interesse delle anime semplici. A corto di letture astruse. Bisognose di appigli veri. Gli echi di Carl Theodor Dreyer e Andrej Tarkovskij, anziché corrispondere alle attese dei vari Professor Guidobaldo Maria Riccardelli avvezzi a rendere gli elementi dell’ingegno un atto di sopraffazione ai danni dei Fantozzi di turno, acquistano un nitore impensabile. E la collaborazione perpetua per la libertà non provoca alcun sbadiglio. Bensì diviene un modo per esibire l’incanto interiore degli sconfitti, la durezza dell’ambiente e l’ansia di affermare la propria personalità. Lontano dai vanesi palchi dei teatri, dagli artificiosi parterre, dall’illusione dell’arte e dell’avventura. Vicino, piuttosto, agli astri di giustizia. Attigui alle bestie estranee alla doppiezza.
Peccato che anche il miope mercato domestico reputi Nuestro tiempo off-limits. O forse ci sarà qualche gradita sorpresa. Conforme ai bei tempi del programma tv cult Fuori orario. Un sottotitolo adatto per l’occasione. Staremo a (ri)vedere.
Massimiliano Serriello
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