A distanza di ventisette primavere dal giallo Affliction, ricavato dal romanzo Tormenta di Russell Banks, l’esperto regista e sceneggiatore statunitense Paul Schrader porta di nuovo sul grande schermo un libro del compianto ed eclettico poeta con Oh, Canada – I tradimenti. Reclutando per il ruolo dell’immusonito protagonista, in procinto di coniugare la vita all’imperfetto, lo stagionato Richard Gere, quarantaquattro anni dopo l’iconico thriller American gigolò. In cui l’ormai ex oggetto cosmopolita del desiderio muliebre alimentava un immaginario erotico caro al gentil sesso conciliandolo con l’angosciosa attesa richiesta dal pubblico semplice e il gusto elitario del puzzle. Ricolmo tanto di false piste quanto d’invenzioni figurative cariche di significato.

L’attitudine a muoversi sul terreno della doppiezza, insita nel genere umano, dell’ottica fenomenologica esistenziale, bisognosa d’una dimensione empatica, e del maledettismo cool, in grado comunque di mettere con le spalle al muro gli ipocriti benpensanti, resta inalterata. Giacché rimane parte integrante d’una cifra stilistica che però, a onor del vero, sembra maggiormente ispirata dalla capacità di comporre in autonomia plot fedeli alla propria visione del mondo. Rinvenibile sia nell’evocativo mix d’apparenza ed epidermica sostanza sia nell’ammaliante egemonia dello spirito sulla materia. Sottoposta alle cagioni d’insicurezza offerte dai cali di personalità degli antieroi di turno. Erroneamente eletti ad autentici eroi.

Il calo di personalità del menzognero Leonard Fife, autore di documentari incensati dalla presunta critica intellettuale, abituato a tirar fuori scomode confessioni da individui per natura estranei agli esami di coscienza, si palesa nell’intervista conclusiva concessa, prima di esalare l’ultimo respiro a causa dell’impietoso tumore che l’attanaglia, a due ex studenti smaniosi di ghermire il tallone d’Achille del narcisistico personaggio in vena di bilanci. L’ovvia musica nostalgica, la compiaciuta sgranatura dell’effigie iniziale dell’elegante ed emblematica porta di casa, le parole della canzone pertinenti allo stato d’animo d’un uomo al crepuscolo, costretto a fare i conti con i suoi demoni privati, l’alacre fase di preparazione della troupe desiderosa di catturare l’attenzione di spettatori più affascinati dal male che dal bene rientrano pienamente nelle corde del vecchio leone della fabbrica dei sogni. Avvezzo, sin dai tempi del copione dell’inobliabile affresco metropolitano Taxi driver buttato giù per Martin Scorsese in veste di direttore d’orchestra, a trarre partito dalla schiettezza interiore connessa al lavoro di sottrazione d’ascendenza bressoniana. Per poi esasperarla mediante le assonanze e le dissonanze relative all’incubo dell’alienazione scandagliata in chiave cattolica-noir. L’impasse tuttavia d’inserire la distintiva concezione del pianeta nell’apologo sulla bugia da nascondere e al contempo sull’arcano da svelare, in conformità con le contraddizioni della società americana fondata sull’effimera esteriorità ma bisognosa lo stesso in determinati frangenti di guardarsi a fondo dentro, esorta l’involuto Schrader ad anteporre la vetusta retorica degli arcinoti fantasmi del passato all’arguzia di riuscire ad appaiare il rigore dell’antiretorica alla febbrile trascendenza dell’impianto melodrammatico.

La voluttà di convertire l’indubbia dinamica cromatica garantita dalla destrezza di scrivere con la luce dell’avvertita fotografia nella pregnanza introspettiva delle favole gremite di risentita rabbia evidenzia i colpi persi step by step. Nel tentativo di garantire al flusso dei ricordi spesso avvolti nella coltre dell’indeterminatezza l’imprinting del superbo realismo lirico insieme al rapporto d’aspetto ideale. Attribuito alla base e all’altezza delle composite inquadrature, col piano ravvicinato degli occhi rassegnati alla cosiddetta commare secca sugli scudi, per apporvi i toni enigmatici d’un quadro svelto ad assorbire la disinvoltura compositiva nelle fulgide accensioni emotive congiunte altresì al programmatico sonoro. Con First reformed – La creazione a rischio al lapalissiano rimando a Il diario di un curato di campagna dell’incomparabile Robert Bresson corrispondeva la fragranza dell’originalità, racchiusa come in Affliction nell’ardire di connettere il gioco geometrico dell’intreccio all’esasperazione di portare la sostanza illusoria del ravvedimento completo a braccetto con alcune incorniciature sghembe. Prive adesso di sugo. A differenze degli spunti risolutori attinti in filigrana al carattere d’ingegno creativo altrui. Da Bernardo Bertolucci in Ultimo tango a Parigi, con il vedovo impudico che vuota il sacco troppo tardi davanti al cadavere della consorte, al pari del documentarista Leonard intento per una volta a dire pane al pane per accaparrarsi l’amore incondizionato della moglie, a Denys Arcand ne Le invasioni barbariche. Un maestro della scrittura per immagini proveniente puta caso dal Canada che cattura l’estremo congedo dagli affetti indelebili dandogli l’input di catalizzare palmo a palmo la sofferta giustezza. L’atmosfera che si respira nei flashback del 1968, quando Leonard scelse di menare per il naso lo zio Sam avido di carne da macello per la guerra in Vietnam ed eluse il reclutamento optando per il Canada, sa parecchio di déjà vu.

Il medesimo discorso vale per il ricorso ai canonici match-cut realizzati grazie all’attento montaggio che raffronta l’infermo agli sgoccioli col futuro documentarista zeppo d’indebiti allori. Impersonato in maniera scolastica dall’avventizio Jacob Elordi. Persino meno incisivo nei panni di Elvis Presley in Priscilla di Sofia Coppola. Al contrario l’opportuna sottorecitazione di Richard Gere coglie nel segno. Specie nei cortocircuiti surreali che rompono in effetti gli schemi dell’andirivieni transitorio infiltrando, solo ed esclusivamente agli occhi degli spettatori sensibili all’immedesimazione, il cascante Fife nell’alcova destinata all’abbandono. Sulla falsariga di Warren Beatty e Buck Henry nella datata commedia fantasy Il paradiso può attendere. La farina del sacco a questo punto mezzo vuoto di Schrader va ricercata ad ogni modo nell’interazione del bianco e nero con il colore, nel bagliore degli ingannevoli riflettori, nei ricordi abbastanza recenti della pace prima della tempesta dovuta allo spaventevole cancro, nella cornice dissoluta nascosta da quella dorata, nella correlazione oggettiva tra habitat ed esseri imperfetti schiavi dell’inane perfezionismo. Ovviamente refrattario ai cambi di rotta ed ergo all’evoluzione. Il ritratto sotto le righe fornito da Richard Gere del falso progressista in odore di riscatto in zona Cesarini offre maggiori motivi d’interesse delle soluzioni espressive sopra le righe maturate, col surplus del predicozzo, dietro la macchina da presa. Nell’illusione di rinverdire fiacche storie d’ordinaria disperazione, d’intensi naufragi ed edificanti slanci. L’esclamazione conclusiva che dà il titolo a Oh, Canada – I tradimenti e chiude, ed era ora, il cerchio, anziché sancire la palingenesi di Schrader da inquieto credente a mite laico proselito della metafisica trascendentale al posto delle lagne da soap opera, suona alla stregua d’un affrancamento dal tedio di piombo.


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