One second: il Signor Cinema di Zhang Yimou

Quanto c’è di Zhang Yimou in One second? È un film che abbraccia la struttura tradizionale che celebra l’amore per il cinema, la magia della sala, il suo rito festoso e solenne, l’ascendenza nazionalpopolare? Oppure antepone i semitoni, le emozioni nascoste, il pudore poetico agli accenti poeticizzanti? La scrittura per immagini riesce ad appaiare sempre il talento di scrivere con la luce o Zhang Yimou sta perdendo colpi e ormai traligna la tensione formale garantita dall’illuminazione ricca di emblematici ed evocativi contrasti chiaroscurali in mera piattezza naturalistica?

Queste domande non sono certo destinate a rimanere in sospeso. La visione di One second offre sufficienti spunti di riflessione ed emana una forza significante degna di nota. Se non d’encomio. Risulta infatti perlomeno opinabile il fatto che, con buona pace dell’orgoglio nazionalistico e della gioia degli sfegatati fan dei body horror in cerca d’allori, Titane di Julia Ducournau ed È stata la mano di Dio del nostro Paolo Sorrentino siano entrati a far parte dei titoli candidati all’Oscar come Best International Feature, a dispetto dell’accozzaglia degli evidenti plagi nascosti sotto le mentite spoglie dei sentiti omaggi ai diversi numi tutelari, mentre One second resta a bocca asciutta.

Ma, al di là dei parametri di giudizio dell’Academy of Motion Picture Arts and Sciences, l’assoluta maestria di assorbire l’input fornito da tecniche di ripresa ed elementi tematici in netto contrasto con la tensione formale e l’attitudine ad arricchire i contenuti coi valori figurativi cementati dalle scelte luministiche riflettono l’esperienza realmente maturata dall’autore. Sia lavorando dapprincipio in campagna e in seguito in una fabbrica tessile allorché la fase di crescita della Cina stava per prendere piede, dopo che i personaggi ai margini degli sperduti anfratti rurali avevano subìto l’empia rieducazione imposta dai seguaci dell’ipocrita livellamento ugualitario, sia sulla base dell’intensa passione per la fotografia. Che lo ha poi spinto diventare un regista legittimamente eletto ad autore in virtù proprio del talento di scrivere con la luce. Reduce da due mezzi fiaschi – The Great Wall (2016) e Ying (2018) – cosa vuole mettere in luce l’ex affiliato del Dipartimento di fotografia dell’Istituto cinematografico di Pechino per tornare alla compiutezza espressiva ed evocativa raggiunta nell’ormai lontano 1992 con La storia di Qiu Ju? Chi vuole omaggiare senza ricorrere al mix di meri sotterfugi ed espedienti di terz’ordine, assai facili da sgamare per altro, tipici, infatti, dei nani sulle spalle dei giganti? Sembrerebbe a tutti gli effetti che con One second Zhang Yimou desideri trarre partito dall’elegia sentimentale del nostro Peppuccio Tornatore in Nuovo cinema Paradiso per andare oltre i falsi omaggi, che nascondono l’accidia delle trovate acquisite sottobanco, ed ergo in modo superficiale, senza assorbirle nello slancio mitopoietico dello schietto viaggio di scoperta sorretto dal peculiare timbro scevro dal copia e incolla. Per riconoscere i meriti alle riforme apportate dal rivoluzionario autoctono Deng Xiaoping per consentire anche alle classi sociali fino ad allora tagliate fuori dall’autocrate governo comunista di abbeverarsi alla sorgente della conoscenza. Per riuscire ad appaiare l’antiretorica che permea La storia di Qiu Ju alla magniloquenza di The Great Wall. E riprendere quindi il discorso interrotto dal fragoroso fiasco del colosso dai piedi d’argilla in merito alla profonda suggestione della fiaba storica. Frammista in questo caso all’arguta aneddotica, al valore terapeutico dell’umorismo, ai semitoni preferiti agli accenti, allo sforzo di sfrondamento compiuto quasi trent’anni fa. Ne è passata d’acqua sotto i ponti.

Il punto è capire se dare un colpo al cerchio della ricerca dell’altrove poetico – rinvigorito dalla sagacia ironica che con La storia di Qiu Ju tramutava il ricorso conclusivo al primo piano nel sigillo dell’economia della forma appaiata alla densità contenutistica – e l’altro alla botte dei coefficienti spettacolari del blockbuster a tesi palesi qualche incongruenza. La trama nell’incipit, simile sotto alcuni versi a Il sapore della ciliegia di Abbas Kiarostami, non sembra soffrirne affatto: il deserto all’epoca della rivoluzione culturale, che tagliava le gambe a chi le aveva lunghe invece di allungarle a chi le aveva corte, è il teatro d’interessi divergenti. Con l’inviperita ragazzina Liu che ruba le bobine del film propagandistico Heroic sons and daughters atteso nel villaggio limitrofo perché vuole servirsi dei rullini della pellicole per costruire una lampada e consentire al fratellino, altrimenti condannato dalla miseria imperante a perdere la vista nella semioscurità, ad anteporre il sorriso della speranza all’attanagliante arrendevolezza; il fuggitivo, evaso dall’autocrate prigione statale, vuole vedere nel breve inserto documentaristico l’immagine della figlia mentre riscatta il disonore arrecatole dal padre galeotto sgobbando sotto l’egida dei presunti paladini dell’uguaglianza. L’attrito, i battibecchi, gli scontri aperti avvengono dapprincipio in un’atmosfera avventurosa e picaresca. Che dona il giusto risalto pure al versante dell’alienazione connessa all’idea speculare di deserto. Ed è come, in un certo senso, se Zhang Yimou conciliasse gli stilemi di Lawrence d’Arabia e la tetralogia desertica dello ieratico ed erudito Michelangelo Antonioni. L’arrivo al villaggio, al contrario, denota lo scarso smalto delle figure di contorno. I gesti sinuosi di Lanterne rosse, lo scrupolo geometrico di Ju Dou, il climax meditabondo affidato alla cura dei particolari, il sussulto di coscienza conclusiva, che ne La storia di Qiu Ju chiudeva il cerchio col primo piano della protagonista contadina pentita di aver provocato l’arresto del capo villaggio di buccia dura e dal cuore d’oro, sembrano lontani secoli.

L’interazione tra folclore e solennità, tra ampollosi tragitti di volontà ed empatiche sfumature psicologiche, tra sottigliezza intimistica ed empito collettivo incline alla tentazione dell’iperbole concede qualche banalità di troppo. A riscattarle step by step provvedono soprattutto le prove recitative dei protagonisti. Specie l’evaso doppiato in italiano dall’esperto Loris Loddi. Lo spettacolo di secondo rango della recitazione non sarebbe comunque sufficiente a dare coerenza alla vanagloria di elogiare la misura delle cose, in conformità all’egemonia morale dei suoni diegetici sulla musica extradiegetica, e contraddire la scelta dettata dal rigore sulla scorta dello scontato panegirico. Tuttavia il crescendo di One second imbocca con convinzione la via dell’apologo morale ed esistenziale. E anche le particine dapprincipio programmatiche ed esornative non pagano più dazio alla fragilità della tesi. Il passaggio dall’inimicizia alla mutua solidarietà non sa di déjà-vu. Ed è già un discreto traguardo. Considerando il rischio di trascinare nel ridicolo involontario le idee attinte ad altisonanti numi tutelari. Il personaggio del Signor Cinema, ovvero il proiezionista, andando verso l’epilogo, diviene più sfumato. Indipendente. E quindi meno soggetto al confronto con l’antesignano Alfredo di Nuovo cinema Paradiso. La ricerca della lacrima facile legata al villaggio, schiavo delle scorciatoie del cervello congiunte ai luoghi comuni, cede spazio alla ricerca dell’alterità. La lampada magica ghermita dalla ragazza tornerà ad accendersi. Il deserto, teatro di scontro all’inizio e di rincontro ed empatico confronto nelle battute conclusive, restituisce alla geografia emozionale la forza significante dei paesaggi riflessivi. L’attimo fuggente rivisto all’infinito persuade poco. Il colpo d’ala assestato da Zhang Yimou nel passaggio dall’infecondo luogo comune al fecondo luogo dell’anima restituisce qualcosa della magia dispersa strada facendo. La storia di Qiu Ju rimane un’altra camminata. Però parte dell’affetto genuino di quel villaggio rivive nel deserto di One second. Mettendo in secondo piano i rimandi a L’attimo fuggente e Nuovo cinema Paradiso. D’altronde i luoghi dell’anima non hanno bisogno di numi tutelari. Bensì della fragranza della spontaneità di tratto.

 

 

Massimiliano Serriello