Opera senza autore: la Germania del secolo scorso raccontata attraverso l’arte

Opera senza autore è il terzo lungometraggio del regista tedesco Florian Henckel von DOnnersmarck, che nel 2006 ha conquistato il mondo intero con il bellissimo Le vite degli altri (vincitore del premio Oscar per il miglior film straniero).

Anche questa volta ci viene presentato un personale ritratto della Germania del secolo scorso. Anche questa volta vengono rappresentati i (non pochi) danni provocati dalle dittature che hanno avuto modo di insidiarsi in terra teutonica. Il periodo storico qui messo in scena, quindi, comprende ben tre decenni. Inizialmente ci troviamo a Dresda, nel 1937. Il giovane Kurt ha solo sei anni, ma sogna da sempre di diventare pittore. Sua zia, appena può, lo accompagna a vedere alcune mostre, ma, ben presto, viene internata e condannata a morte da uno spietato medico nazista a causa di una sua presunta malattia mentale. La Seconda Guerra Mondiale è solo alle porte.

Questo, ovviamente, è soltanto l’inizio. Opera senza autore, infatti, non vuol raccontare ancora una volta la tragedia dell’Olocausto, né ha intenzione di mettere in scena la dittatura comunista nella Germania dell’Est, come era avvenuto in Le vite degli altri. Questa imponente opera di von Donnersmarck ci racconta sì trent’anni di storia della Germania, ma lo fa attraverso il valore che l’arte – e, nello specifico, la pittura – ha acquisito nel corso di vari decenni. E la peculiarità del presente lungometraggio sta proprio in questo: nel farsi apologia della bellezza, permettendoci di capire come essa sia in grado, a suo modo, di salvare il mondo.

Tutto il resto, poi, viene da sé: funziona bene lo script, articolato a dovere nel raccontare i diversi momenti storici. Così come funzionano l’ottimo cast e la stessa ricostruzione degli ambienti. Concentrandoci, però, esclusivamente sulla sceneggiatura, indubbiamente vi sono non poche coincidenze che possono, in un primo momento, sembrare innaturali.

In ogni caso, tutto torna se la cosa si legge come un’enorme metafora di ciò che è l’arte (a tal proposito, particolarmente interessante è il dialogo tra il protagonista e il suo professore, quando quest’ultimo vuol fargli capire come riuscire a trovare la propria strada) e se, per primo, a giocare il ruolo principale è quel forte simbolismo che l’autore ha voluto conferire a ogni singolo fatto.

Il risultato finale è, come già è stato accennato, un’opera importante e imponente, sulla quale molto ha voluto puntare l’autore stesso e che, pur non riuscendo a eguagliare per impatto e per resa finale Le vite degli altri, si conferma un prodotto più che dignitoso, con non pochi momenti emozionanti al proprio interno (prima su tutte, la scena in cui, ricordando la zia scomparsa, il protagonista chiede a un gruppo di autisti di suonare tutti contemporaneamente il clacson dei loro autobus, analogamente a quanto era solita fare la donna). Un lungometraggio della cui visione non ci si stanca mai. Nemmeno dopo la sua quasi ora e dieci di durata.

 

 

Marina Pavido