Ci sono dischi che si ascoltano, e poi ci sono dischi che si vivono. Ethos di Otus Medi appartiene alla seconda categoria. Dal primo suono di Aria, si capisce che non si tratta solo di musica elettronica: è una storia raccontata attraverso vibrazioni, respiri e silenzi.

È un disco che sembra conoscere i tempi dell’anima. Ti accoglie con leggerezza, poi ti porta altrove, in un luogo più profondo, più intimo. Ogni traccia è un piccolo mondo: Pulsing Waves ha la grazia di un respiro antico, Cake è un lampo di modernità gioiosa, mentre Neige Rouge e Now I Know si muovono come onde emotive, iniziando con slancio e finendo in malinconia.
C’è un amore evidente per il contrasto: tra luce e ombra, suono e silenzio, artificiale e umano. Otus Medi costruisce il suo universo sonoro con cura artigianale, mescolando sintetizzatori e strumenti reali — violino, lira, fisarmonica, pianoforte — fino a farli dialogare come vecchi amici. Anche le voci, usate come strumenti, sono presenze sospese che accarezzano e sfuggono, come ricordi che non vogliono essere spiegati.
Si sente la provenienza dal clubbing, sì, ma anche la voglia di andare oltre. Ethos non vuole farti ballare: vuole farti muovere dentro. È un viaggio spirituale, fatto di ritmo, introspezione e bellezza imperfetta.
Otus scrive che questo disco è nato per mostrarsi interamente, senza filtri, e si sente. Ethos è onesto, vulnerabile, coraggioso. È un atto d’amore verso la musica, ma anche verso la libertà di essere se stessi — anche quando il mercato direbbe di fare il contrario.
È raro, oggi, incontrare un lavoro che riesce a essere così personale e universale allo stesso tempo. Ethos non urla: parla piano, ma arriva dritto al cuore. E lì resta, a vibrare.


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