Pantafa: Malanotte dell’orrore

Il titolo Pantafa fa riferimento ad una leggenda popolare riguardante una creatura che si siede sul petto di coloro che dormono per rubargli il respiro.

Leggenda popolare su cui, dunque, al suo secondo lungometraggio dopo La profezia dell’armadillo, derivato dall’omonima graphic novel del fumettista Zerocalcare, Emanuele Scaringi costruisce la vicenda di cui è protagonista la Marta interpretata da Kasia Smutniak.

La Marta che si trasferisce nel piccolo paese di montagna Malanotte insieme alla figlioletta Nina alias Greta Santi, da tempo sofferente di paralisi ipnagogiche, ovvero un disturbo del sonno capace di portare ad avere stati allucinatori. Un trasferimento che la donna crede necessario per giovare alla piccola lontano dalla frenesia cittadina, ma che si rivela presto tutt’altro che una scelta felice; in quanto non solo l’abitazione in cui alloggiano è tutt’altro che accogliente, ma per le strade del posto non si vedono mai bambini e i sintomi di Nina cominciano a peggiorare fin dalla prima notte, con incubi sempre più vividi riguardanti la spettrale entità sopra menzionata.

Un’entità che viene rappresentata in qualità di presenza femminile urlante e caratterizzata da lunghi capelli scuri alla maniera tipica dell’infinità di film dell’orrore d’imitazione giapponese, oltretutto tirata particolarmente in ballo nella fase conclusiva dell’operazione, quando trova spazio anche qualche buon effetto speciale.

Una fase conclusiva che appare, poi, quella maggiormente interessante dal punto di vista dell’horror da grande schermo, considerando che per circa metà della oltre ora e quaranta di visione si prova la forte impressione di trovarci dinanzi ad un qualsiasi dramma italiano accompagnato da eccessivamente lenti ritmi di narrazione e piuttosto soporifero.

Ma allora, mentre il veterano Giuseppe Cederna viene coinvolto nei panni del medico locale, cosa ha da dispensarci, in fatto di originalità, Pantafa?

Assolutamente nulla, perché, se da un lato storie a base di mostruosità dedite al rubare il respiro ai dormienti erano già state proposte nel 2017 in Slumber – Il demone del sonno di Jonathan Hopkins e, addirittura, trentadue anni prima nel kinghiano L’occhio del gatto di Lewis Teague, dall’altro non è sufficiente la buona volontà di creare un po’ di avvolgente atmosfera lugubre (con tanto di pioggia) immersa in aria folkloristica a fare un prodotto di paura degno di nota.

Ciò che rimane, dunque, è un tecnicamente non disprezzabile esercizio di stile che possiede non poco il sapore di un cortometraggio inutilmente dilatato senza possedere una manciata di valide idee da sfruttare al suo interno.

 

 

Francesco Lomuscio