Amici di Mondospettacolo, oggi voglio presentarvi lo scrittore e giornalista Paolo Borgognone, con il quale parleremo del suo bellissimo libro: “Freddie Mercury– The Show must Go on”.
Ho proposto a Paolo una video intervista, lui ha simpaticamente accettato ed eccoci qui!
Prima di guardarla insieme, vediamo chi è Paolo Borgognone.
Paolo Borgognone è giornalista e scrittore. Nato nel 1962, coltiva da sempre la passione per la musica, oltre che per la lettura e la scrittura. E’ entrato nell’ordine dei giornalisti nel 1993 e ha collaborato con importanti testate nazionali oltre a lavorare come addetto stampa per un ente pubblico.
Per Diarkos Editore ha pubblicato tre biografie. “Freddie Mercury– The Show must Go on”; “Io Elvis – la parabola immortale di The King” e Martin Luther King Jr – I Have a Dream.
Freddie Mercury
The Show Must Go On
Più forte delle difficoltà, degli ostacoli, delle convenzioni e dei pregiudizi, piegato solo da una malattia che non lasciava scampo, ma capace di lasciarci in eredità una musica immortale, che continua a deviare un’epoca: è questo il mito di Freddie Mercury, rocker dai mille volti, raccontato nella appassionata biografia “The Show Must Go On” edita per Diarkos dal giornalista Paolo Borgognone.
“The Show Must Go On” muove i primi passi a Zanzibar – dove il cantante, che allora si chiamava Farroock Bulsara, era nato nel 1948 – per poi spostarsi, seguendo la traiettoria esistenziale del performer, in India e finalmente, nel 1964, nel sobborgo londinese di Feltham. Qui il ragazzo – pur dovendo fare i conti con una società ancora ritrosa ad accattare completamente i figli dell’Impero britannico arrivati da oltre mare – inizia a mostrare il proprio talento artistico, rafforzato da una capacità vocale fuori dall’ordinario, e incontra due musicisti a caccia del sound giusto: l’energico batterista Roger Taylor e il geniale chitarrista Brian May. Insieme, con l’aggiunta del bassista John Deacon, daranno vita a una delle rock band di maggiore successo della storia, i Queen. Un nome dissacrante – Queen in inglese è anche uno dei termini per indicare gli omosessuali – ma una capacità eccezionale di creare un sound tutto proprio, riconoscibile, fondendo diversi stili. Proprio la passione di Freddie – nel frattempo diventato per tutti Mercury – per la lirica e la contaminazione di generi darà vita ad alcuni dei più grandi capolavori della musica del Novecento. A partire da quella “Bohemian Rhapsody” – un “pastiche” di difficile collocazione lunga quasi sei minuti, uscita nel 1975 nel terzo disco del gruppo “A Night at the Opera” – che vanta una serie di record straordinari: per tutti ne citiamo uno, quello di canzone con maggiori ascolti in streaming, con oltre 1,6 miliardi di riproduzioni.
Verso la metà degli anni ’80 – quando la popolarità dei Queen sta conoscendo una flessione – Mercury si imbarca anche in una carriera da solista, strizzando l’occhio alla musica dance, riscuotendo un relativo successo di pubblico e facendo storcere non poco il naso ai tanti fan del gruppo. Tra questi anche l’autore della biografia che ci racconta, non senza emozione, di aver (ri)scoperto il sound vero dei Queen in una data precisa: il 13 luglio 1985 quando il quartetto partecipa al grande concerto per combattere la fame nel mondo, il “Live Aid”. La performance dei Queen quel giorno a Wembley Stadium di Londra è epocale e oltre a contribuire in maniera decisiva alla raccolta di fondi per l’Etiopia alle prese con la carestia, rilancia la loro carriera che da quel momento torna a splendere. Mercury si dedicherà a un altro straordinario progetto solista, il duetto con la cantante lirica spagnola Montserrat Caballé per un disco di inaspettato successo che contiene – tra le altre chicche – anche “Barcelona”, sigla dei Giochi Olimpici del 1992.
A quel punto, però, Freddie non ci sarà già più. A colpirlo, già dal 1987, la terribile piaga dell’Aids, all’epoca incurabile e drammaticamente diffusa in modo particolare (ma non esclusivo come colpevolmente in molti si intestardivano a credere) nella comunità omosessuale che il cantante frequentava assiduamente. L’artista decise che la malattia non lo avrebbe comunque distolto dalla musica e al periodo finale degli anni ’80 appartengono alcuni dei brani più epici e di successo commerciale della band. Nonostante le voci sulla sua condizione si facessero sempre più insistenti, complici anche i segni che il male lasciava sul suo fisico, il cantante continuò a lavorare fino agli ultimi giorni, sfidando condizioni di salute sempre più precarie. Quando ci si trova davanti l’inevitabile – ci racconta, con una delicatezza derivata dal rispetto per l’uomo oltre che dalla ammirazione per l’artista, l’autore di “The Show Must Go On” – Freddie decise di annunciare al mondo la propria condizione, soprattutto per stracciare il velo di ipocrita omertà che circondava in quel periodo storico l’Aids: la notizia della sua malattia arriva solo 24 ore prima di quel tragico 14 novembre 1991 quando il suo cuore smise di battere a Garden Lodge, la casa londinese nella quale viveva con il suo compagno, Jim Hutton, e pochi fidatissimi amici e che oggi appartiene alla persona che gli è sempre stata vicina e che lui considerava, come amava ripetere, “sua moglie”: Mary Austin.
Da allora il mito di Freddie Mercury non è mai tramontato, anzi. Il suo lascito musicale e artistico, l’attenzione che ha finalmente concentrato sulla lotta alla terribile malattia che lo ha colpito, ne hanno fatto una straordinaria icona del nostro tempo, un simbolo ineguagliabile a cui “The Show Must Go On” cerca di rendere pienamente giustizia.
Alessandro Cunsolo
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