Il radicalismo mimetico dell’ormai affermato ed eclettico attore romano Luca Marinelli, recentemente calatosi per il piccolo schermo in M – il figlio del secolo nei panni di Benito Mussolini dalla fondazione del Fascismo all’assunzione della “responsabilità politica, morale e storica” dei capi d’accusa imputatigli dai labili oppositori, è divenuto un elemento d’attrazione sul grande schermo alla stregua della cifra stilistica ed espressiva degli autori con la “a” maiuscola.
Al punto da spingere l’ambiziosa consorte tedesca dell’interprete capitolino, Alissa Jung, ad azzardare l’arduo passaggio dalle prove recitative in soap opera di successo, come Schmetterlinge im Bauch, andata in onda nel Bel Paese col titolo Cuori tra le nuvole, al privilegio di disporre dietro alla macchina da presa delle capacità camaleontiche dell’applaudito consorte nel mélo introspettivo Paternal leave. Che suggella una collaborazione tra il cinema crucco e lo Stivale, avvezzo da sempre a presentare sul mercato primario di sbocco della Settima arte film d’indubbia qualità, frutto dello sforzo realizzativo profuso a braccetto di paesi altrettanto sensibili nei confronti dei prodotti sulla carta di particolare pregio.

All’atto concreto occorre capire se dietro la parvenza dell’affinità elettiva delle componenti intime ed eminentemente espressionistiche, dispiegate allo scopo di ricavarne nuova popolarità presso il pubblico avvertito, si cela l’ennesimo film che confonde la forza significante della scrittura per immagini con gli espedienti di terz’ordine dei polpettoni strappalacrime o se la comunione d’intenti in gioco abbia davvero tratto partito dalla sensibilità artistica d’una coppia decisa ad approdare nel Pantheon dell’ambita fabbrica dei sogni. La geografia emozionale sembra garantire un viatico degno d’interesse per sottrarre l’operazione all’impasse dell’irrimediabile banalità. Il riverbero del volto ingrugnato ed etereo della quindicenne Leo insieme ai paesaggi riflessivi che sfrecciano, sulla scorta dell’ennesima scoperta dell’alterità, ovvero di qualcosa di diverso dall’ordinario destinato a diventare familiare, sembrerebbe consentire al processo di transizione dell’adolescenza d’imprimere alla linea d’ombra della riorganizzazione l’appropriata altalena degli stati d’animo. In linea con la coalescenza degli sguardi connessi con il territorio straniero tutto da scoprire agli occhi dell’irrisolta fanciulla teutonica. Che collima con la Rimini fuori stagione dove il negletto padre, Paolo, eterno Peter Pan capitolino trapiantato nell’Italia del Nord, cerca di mantenere fede alla parola data alla moglie Valeria per permettere alla loro figlioletta Emilia un’infanzia serena. Al riparo dagli sbagli irreparabili commessi dai presunti adulti. Irrisolti e incoscienti. L’itinerario colmo d’ovvi ostacoli che scuote comunque la coscienza di Paolo, refrattario all’inizio ad assumersi le proprie responsabilità, paga dazio al deleterio ripiegamento, nel prosieguo dell’inopinato rapporto una volta rotto il ghiaccio grazie al richiamo del sangue, sulle posizioni di partenza.

Mentre lì per lì la vertigine del tempo, che spesso sfugge ad ambedue i protagonisti nonostante il proposito dichiarato di non perdere più colpi su quel versante, e l’aria di rassegnazione, frammista ai soprassalti di stizza, dinanzi agli impietosi schiaffi del destino, trovano nel mare d’inverno, nello stabilimento chiuso, nella spiaggia semi-deserta, nei fenicotteri, scevri dalla snervante curiosità dei bagnanti, l’humus ideale per approfondire le ragioni della molla del rigetto nel sottotesto dell’assunto, alieno all’ordine naturale costeggiato ed ergo conforme invece alla desolazione limitrofa, l’affioramento dell’amara verità cementa l’inidonea egemonia dei gesti sovraccarichi e delle eccedenti grida di dolore sugli eloquenti silenzi dell’incipit. Che, al pari dell’arguzia di associare
la sospensione dal leitmotiv della frustrazione e dell’incomprensione, nonostante l’utilizzo dell’inglese alla stregua d’una lingua pidgin buona in ogni porto, alla gioia d’apprendere le basi del surf con la guida solerte del genitore in odore di riscatto, lasciavano ben sperare. A infrangere le aspettative ingenerate mobilitando gli strumenti offerti pure da un compiuto senso introduttivo di mistero, che a lungo andare traligna invece in una concitazione drammatica ai limiti del ridicolo involontario, lontana anni luce dunque dai vertici poetici ad appannaggio di qualsivoglia suspense meditabonda in grado di tenere sulle spine persino le platee allergiche ai dispendi di fosforo, concorre soprattutto lo stucchevole sentimentalismo che pervade, palmo a palmo, la trama. L’amichevole intesa di Leo con il premuroso ed effeminato rampollo d’un custode manesco, l’ansia di dimenticare le ingiustizie ascoltando musica ad alto volume, le corse a perdifiato nell’area boschiva limitrofa, in cui tardivamente l’abbraccio silente scalza l’inane babele delle logorroiche lagne, in teoria sciorinano un notevole valore d’incentivo per appaiare alla rappresentazione oggettiva nuda e cruda delle cose quella, al contrario, soggettiva.

Rappresentazione legata alla metafora dell’altrove, insieme alla palingenesi della battaglia solitaria con la furia degli elementi nella carezzevole sfida di cavalcare le onde per merito dell’ausilio del babbo ritrovato, nonché dei momenti up e down. Congiunti alla voluttà di trovare le radici perdute a costo di perdersi definitivamente. All’atto pratico l’insistita tiritera, già sconfessata da alcune deleterie modalità esplicative che tolgono qualsivoglia appeal all’intreccio di piste cosparse da programmatiche chiavi allegoriche concernenti la fiducia in sé stessi e i vincoli di sangue giustapposti ai legami col suolo negletto in attesa dell’affollamento estivo, mostra inesorabilmente la corda. All’attivo resta la performance assai misurata, a dispetto di qualche pleonastico scatto di nervi previsto da un copione incline al ricatto morale che aggiunge sentimento al sentimento, della graziosa esordiente Juli Grabenhenrich nelle vesti ora meste ora rinfrancate di Leo. All’opposto l’insostenibile gigionismo dell’involuto Marinelli, anziché sancire l’investitura del compiaciuto mattatore ad autore tout court, a braccetto con l’inseparabile moglie, che in cabina di regìa lo sprona a elargire saggi di recitazione attraverso i reiterati slanci apparentemente istrionici ed empatici, trascina l’interazione tra frustrazione e liberazione nell’intoppo dell’esasperazione. Paternal leave chiude quindi i battenti tentando inutilmente di unire gli arcinoti punti di sfogo, dovuti all’angoscia incombente di fronte all’estensione d’un breve respiro di tempo che manda a carte quarantotto la necessità di coprire esigenze immediate, con l’inedita virtù del territorio assurto ad attante narrativo colmo d’intenso significato nel sopperire all’opacità del reale tramite la geografia emozionale. Il tentativo così di ghermire gli obiettivi a lungo termine provenienti dal cuore, collocato dalla potenza dell’invisibile al di là dell’orizzonte, sfocia nella mera banalità. Spacciata per originalità da chi dapprincipio rimesta i miasmi dei rancori, estranei al focolare domestico, e al dunque incarta vane confezioni consolatorie che inneggiano alla fragranza del riavvicinamento.
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