Diretto da Ron Howard, definire Pavarotti un ottimo biopic sarebbe fin troppo riduttivo, in quanto il lavoro svolto dal cineasta americano – e da tutto il suo team ben diretto da Nigel Sinclair, uno dei principali produttori e collaboratori di vecchia data del mai dimenticato Richie Cunnigham di Happy days – conferma le capacità già espresse tramite il precedente documentario sui Beatles.
Forse per la sua storia che sembra davvero essere uscita da un melodramma dell’opera a causa della forza espressa dal tenore, Pavarotti riesce a commuovere perfino i critici più spietati, che non solo riconoscono lo splendido lavoro di ricerca fatto di video inediti, con tanto di vecchie registrazioni amatatoriali, ma avvertono anche la sensibilità e capacità di Howard di unire ad ogni precisa aria dell’opera un momento bello o drammatico della vita del grande Luciano, probabilmente un po’ troppo criticato verso la fine della sua carriera, nel nostro paese, per la love story con la giovane Nicoletta Mantovani.
Quello che ci viene restituito dal regista è l’uomo Pavarotti, dotato di un immenso dono, che secondo lo stesso tenore era merito del miracolo che gli aveva permesso a dodici anni di superare un grave infezione al tetano, vivere il terribile periodo della Seconda Guerra Mondiale da bimbo, nella sua Modena, e seguire i consigli della madre, la quale, a differenza del disilluso padre panettiere, grande tenore che non era riuscito a calcare le scene, non voleva per lui una semplice carriera da professore.
Oggi dire Pavarotti è dire Opera, e il suo merito impagabile è stato quello di aver avvicinato chiunque, anche popolazioni che fino a qualche decina di anni fa ignoravano questo patrimonio tutto italiano, divenendo il degno erede di Enrico Caruso.
Difficile riportare in poche righe quanto di interessante – e, molto spesso, coinvolgente fino alle lacrime – vediamo all’interno del documentario, che nelle sue due ore risulta non solo l’omaggio più bello per Pavarotti, ma ci restituisce le sue debolezze, una persona che in alcuni casi cedeva alla condizione umana e che viveva il proprio ruolo in modo intenso e sofferto; tanto che, sempre nervoso nonostante ormai fosse arrivato alla perfezione e con un repertorio incredibile, ogni volta che saliva sul palco diceva “vado a morire”.
Questo è l’aspetto più bello e interessante di tutta l’opera di Howard, che si è avvicinato a Pavarotti da scarso conoscitore dell’Opera, come un qualunque uomo della strada che ne sa qualcosa grazie ai media, ma ben poco sa della sua storia. Una storia che l’autore di Rush, grazie alla sua sensibilità, ha utilizzato per trasformare questo semplice biopic in qualcosa di molto intenso, per merito oltretutto di un incredibile lavoro di ricerca di archivio.
Le parole più interessanti, poi, vengono da Bono degli U2, che racconta la curiosa nascita della canzone scritta per Pavarotti, dopo un assillo continuo anche grazie alla sua nuova moglie Nicoletta, fan del gruppo. Un’intervista che sembra quasi non tanto testimoniare chi era Pavarotti, con cui era diventato amico, ma consentire a Bono di raccontare se stesso, ormai maturo cantante che ricorda il suo amico e che pare tracciare un parallelo tra le loro vite artistiche.
Non ultimo, il sentito ricordo dei due tenori Carreras e Domingo, che formarono insieme a lui l’incredibile trio e che raccontano con grande nostalgia i loro concerti e l’amicizia che si era cementata, qualcosa che andava ben oltre la fama e i concerti.
Il film inizia tramite un curioso concerto nel centro dell’Amazzonia, dove Pavarotti era voluto andare per cantare come lo fece anche Caruso, in un teatro vuoto, aperto per l’occasione con pochi spettatori che una videocamera amatoriale, per la fortuna di Howard, riprese. Una vera fortuna perché quella zona del mondo, ora al centro di tanti problemi legati all’ambiente, con quei pochi minuti di esibizione sembra davvero sintetizzare l’inizio dell’Opera di Pavarotti, che ancora oggi prosegue con tante iniziative benefiche.
Il Pavarotti la cui eredità vanta cento milioni di dischi venduti, a partire dalla Nessun dorma che chiude questo documentario su una persona che è andata ben oltre i suoi meriti artistici e che ha vinto la sua scommessa con la vita, lasciando qualcosa capace di andare al di là dell’Opera stessa.
Roberto Leofrigio
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