Piccole donne: trasposizione a scatole cinesi per il noto romanzo

L’arzilla ed eclettica attrice statunitense Greta Gerwig conferma in cabina di regìa l’estro profuso nell’arguto affresco autobiografico Lady Bird guadagnandosi nuovi applausi con l’ennesima trasposizione sul grande schermo del celebre romanzo Piccole donne di Louisa May Alcott.

A distinguerla dalle altre versioni, persino da quelle venerate con Katherine Hepburn ed Elizabeth Taylor che mandano in solluchero i laudatores temporis acti (“i lodatori del tempo passato”) presi in esame, nonché in giro, da Orazio nell’Ars Poetica, è il gioco a scatole cinesi impreziosito grazie all’ausilio dell’arguto montaggio di Nick Houy.

Sulla medesima falsariga del compianto Sergio Leone di C’era una volta in America, apologo relativo al rammarico virile per ciò che avrebbe potuto essere e invece non è stato, il modello letterario di Marcel Proust con À la recherche du temps perdu restituisce pan per focaccia a chi contempla il fascino romantico dell’utopia solo ed esclusivamente nell’antichità.

A guarire il sogno con la marcia indietro, ai tempi del nonno o del bisnonno, provvedono i dotti raccordi delle immagini capaci di sottrarre l’ormai ovvia trama all’impasse sia dei deleteri sbadigli sia del tasso di saccarosio dovuto agli inciampi nel dolciastro. Il corredo d’idee ivi congiunto tiene desto l’interesse sin dall’incipit quando l’(anti)eroina del libro, Josephine, detta Joe, si confronta con un editore vecchio stampo per capire se può dare del “tu” alle proprie aspirazioni come scrittrice.

L’interazione tra passato e presente trae linfa dall’uso del match-cut visivo che, accostando le analogie sul terreno dell’armonia e della forma di sequenze diverse, spiazza l’intuito degli spettatori. Sorpresi, sedotti, talora pure sconvolti dall’inopinato ed emblematico salto in avanti. L’inane ricorso allo slow motion, onde rimarcare l’importanza degli eventi sulla scorta dell’evidente lentezza, persuade, invece, assai meno. Giacché stenta ad accoppiarvi inquadrature, specie in soggettiva, cariche, davvero, di senso.

Al contrario, il contributo delle scenografie di Jess Gonchor risulta di prim’ordine: i balli, le disparate abitazioni, gli arredi, gli oggetti, che sembrano prendere vita sul serio, danno il via, in crescendo, all’intrinseca palingenesi dei motivi figurativi. Il fulgido contrappunto introspettivo, sostenuto altresì dalla lodevole capacità di scrivere con la luce da parte dell’attenta fotografia di Yorick Le Saux, contribuisce ad animare ulteriormente il copione. Redatto dalla stessa Gerwig, molto svelta ad aggiungere inedite pause contemplative ed empiti di gioia e scoramento fuori dell’ordinario alla complicità femminile delle quattro sorelle March: Jo, Meg, Beth e Amy.

Lo scopo prefisso può dirsi raggiunto in virtù del nesso dei personaggi col loro habitat. Il mix tra interni ed esterni, riscontrabili nei campi lunghi intenti ad avvistare l’intensa geografia emozionale e l’insita distanza che separa la ricchezza dalla povertà, fa emergere pure qualcosa di asimmetrico. Ed è là che risiede il succo della tenuta stilistica.

L’ampia gamma espressiva riposta in certi voluti scompensi nel ritmo, giustapposti alla geometrica perfezione delle scene di massa, ed ergo in società, travalica i limiti d’ogni trattamento superficiale ed emana un’insolita energia. Lo sviluppo dei caratteri – con l’introversa e dolcissima Beth che spinge l’abbiente vicino di casa, il sig. Laurence, ad anteporre i palpiti della generosità, regalandole un magnifico pianoforte, alla dura scorza – coglie, in tal modo, nel segno. Gli alti e bassi dell’instabile Joe con il rampollo dell’accigliato patrizio dallo spirito solerte, Theodore, ribattezzato “Laurie”, beneficiano delle inaspettate tecniche di straniamento.

Il rischio, quindi, di pagare dazio ai timbri soporiferi del déjà-vu cede spazio all’acume dimostrato nel congiungere l’appeal delle stampe d’epoca con il cortocircuito dell’imprevisto. Lungi dal trascinarci nel guazzabuglio dell’eccessiva ebbrezza mentale, un’alternativa piuttosto irrisolta alla noia di piombo. Assai abile, però, ad accrescere il pathos di pari passo con l’escamotage narrativo dell’analessi e della prolessi.

La rievocazione della guerra di secessione americana, vissuta nell’attesa del ritorno dal fronte dell’amato capostipite, il cappellano dalle maniere gentili che chiama le figlie piccole donne, ricava forza significante dall’egemonia dei sottili sbalzi riflessivi sugli sbadigli della consecutio temporum. La resa spettacolare dell’epilogo, giunto dopo lo shock del lutto in famiglia, altrimenti conforme ai film che rielaborano gli stilemi delle soap come Voglia di tenerezza, tiene gli spettatori, perfino i borbottoni allergici alle note intimiste, con il fiato in gola e il cuore stretto.

Tutto, chiaramente, va secondo copione. Eppure l’altalena degli stati d’animo, che trascina qualsivoglia tipo di platea, testimonia la vivacità dell’ingegno. I fan del best-seller devono, quindi, accendere un cero alla prodiga Greta Gerwig. Il suo Piccole donne colma l’abissale ignoranza del pubblico allergico alla lettura, spingendolo ad appassionarsi alla cura dei dettagli che privilegiano l’alta densità lessicale, ed esalta l’inesausto piglio della protagonista, sconvolta dalle nozze del negletto “Laurie” con l’irrefrenabile Amy, nel redigere di getto la versione decisiva.

Saoirse Ronan, già bravissima in Lady Bird nella scoperta dell’alterità, fornisce la miglior performance degli ultimi anni. Il personaggio di Joe March, che afferra in zona Cesarini l’affinità elettiva con lo schietto professor Friedrich, le calza, infatti, a pennello. L’ambìta conquista dell’Oscar di best actress diverrebbe la ciliegina sulla torta. Staremo a vedere.

 

 

Massimiliano Serriello