Polaroid: l’horror ai tempi dell’usato sicuro

Ebbe a dire una volta Stephen King che le storie dell’orrore fanno capo a cinque, sei archetipi fondamentali, il resto è tutto una (geniale) variazione. Come dargli torto, dopo aver visto Polaroid? E non certo per la genialità.

Esaurita la spinta – come lo sono ormai i macchinari – che attribuiva a strumenti moderni come cellulari e televisori una carica demoniaca e malvagia e alla quale si poteva anche attribuire una qualche legittimità di sperimentazione cinefila come sociale, non resta che andare sull’usato sicuro e garantito, e rispolverare il vintage.

Il norvegese Lars Klevberg è autore di uno short del 2015 interessante, rintracciabile ancora su Vimeo, che, pur non riflettendo su chissà cosa, qualche bello spavento riesce a confezionarlo.

Male gli è andata a pensare di trasformarlo su un lungometraggio che, per forza di cose, doveva essere annacquato e allungato a dismisura per poter approdare in sala.

Polaroid racconta di un gruppo di ragazzi alle prese con una polaroid, appunto, che immortala una strana ombra irrintracciabile con i nostri comuni sensi. Iniziano le morti e inizia la detection, così come inizia, però, la noia.

A niente servono i dialoghi buttati qua e là, senza neanche troppa convinzione, sul significato (???) dei selfie e sul gesto di scattare una foto (in inglese, “to shot” indica anche “sparare”, regalando un po’ di ambiguità al termine). Immersi in ambientazioni a dir poco ritrite, come case scricchiolanti, soffitte buie, angoli che sembrano inghiottiti da un nulla oscuro e scale rumorosissime, vengono serviti dal più tipizzato cast di teen movie a cui si possa pensare, azzerando qualsiasi tipo di fascinazione per la materia e per ciò che il film vorrebbe dire.

Solo ambizione e presunzione, insomma, che peraltro cercano legittimazione con strizzatine d’occhio cinefile e robaccia, buone neanche per una boccata d’aria fresca nelle già fresche prime giornate primaverili.

 

 

GianLorenzo Franzì