Presentato alla stampa Gli anni belli, con Maria Grazia Cucinotta

Gli anni belli, distribuito nei cinema da Bendico a partire dal 7 Febbraio 2022, è un film d’esordio che punta decisamente in alto. Facendo finta di volare basso.

Dietro il bozzettismo caricaturale, i siparietti sarcastici, le punture di spillo viste da sinistra nei confronti delle prese di posizione pro contro d’ambo le parti in perenne attrito (con la frecciata al berlusconismo degli anni Novanta sugli scudi), i conflitti generazionali, l’arcinota diatriba tra l’alta densità lessicale di stampo letterario e i segnali discorsivi emerge, anche piuttosto chiaramente, il sentimento della nostalgia.

È ovvio che il regista al debutto Lorenzo d’Amico De Carvalho non ha la goccia al naso; sa, come si dice, il fatto suo; l’anno sia mirabilis sia horribilis (dipende dai punti di vista) per lui è il 1994. La vacanza estiva, e ancor più invernale, è un filone piuttosto sfruttato nel nostro cinema. Ma Lorenzo lo dice senza avvertire alcun indugio; i suoi modelli non sono solo ed esclusivamente i fratelli Vanzina. Enrico come sceneggiatore. Il compianto Carlo. Il miglior erede, secondo l’opinione di chi scrive, della Commedia all’italiana inaugurata da I soliti ignoti di Mario Monicelli. Per poi essere cementata, nomen omen, da Divorzio all’italiana di Pietro Germi. I numi tutelari che lo spingono a dare il fritto, per usare un’espressione romana, dietro la macchina da presa non sono tuttavia i soliti ignoti. Intesi alla stregua di nomi del cinema underground. Ad animarne il carattere d’ingegno creativo – vero o presunto lo stabilirà il destinatario optimum: il pubblico pagante – provvedono in spirito – marciando idealmente nelle file dell’ennesima vacanza italiana e straniera (Dirty Dancing docet) condotta nel buio della sala a spron battuto nella speranza per il momento di piacere alla critica – Gigi Magni, in primis, ed Ernst Lubitsch in seconda battuta. Da parte nostra, durante la videoconferenza di presentazione del film alla stampa chiediamo se la lapalissiana cinefilia – che spinge i ragazzi appassionati di storie da guardare sul grande schermo a trascorrere l’età verde nel buio della sala e solo dopo al mare ad abbronzarsi per vivere l’ebbrezza della “gioventù che si fugge tuttavia” cara a Lorenzo De Medici – vada a braccetto con il richiamo citazionistico – da Gente comune di Robert Redford e Rusty il selvaggio di Francis Ford Coppola ad Apocalypse Now sempre dell’eclettico Coppola – al fine di accrescere il carattere d’autenticità in chiave Amarcord della socialità prima di Internet. Lorenzo ascolta con attenzione la domanda per poi articolare la risposta con una punta d’autoironia: “Il citazionismo è assolutamente voluto. Ed è divertente e appagante che questi richiami citazionistici vengano afferrati tutti. Al volo. I ragazzi con cui abbiamo girato Gli anni belli per esempio non sono riusciti ad afferrarne nemmeno una di queste citazioni. Anche se sono stati bravi a rappresentarle tra il serio e il faceto. Io quindi, visto che erano bravi in questo ma non sapevano di che si trattasse, molte cose glie le ho dovute e voluto spiegare per filo e per segno. O quasi. Ci sta. Per carità! Si tratta di riferimenti culturali che si evolvono nel corso del tempo.

L’idea che soprattutto ho voluto portare avanti attraverso il richiamo citazionistico e la cinefilia, a cui in effetti concedo molto spazio, è che in quegli anni, gli anni Novanta intendo naturalmente, cominciavamo a essere pervasi d’un immaginario visivo, tanto cinematografico quanto televisivo, perché il cinema consumato a livello domestico non ha il fascino del buio in sala sul grande schermo – concordo con lei – ma esercitava comunque un ascendente importante, tale da lasciare il segno. Da divenire parte integrante di noi. Del nostro modo di porci, di essere, di agire, di reagire anche. Alle difficoltà. Alle cose che non ci stavano bene. Al divario generazionale. Quello che noi avvertivamo da ragazzi nei confronti degli adulti veri. I genitori ovviamente per primi. Mi è scappato perciò ne Gli anni belli:  siamo, restiamo e rimarremo la prima generazioni di ragazzi che si nutrivano d’immagini ed emozioni diverse da tra loro. Come diversi pure i film che vedevamo. Di cui, torno a ripetere, ci nutrivano“. Ed era un nutrimento dell’anima garantito dalla cultura post-moderna, allora dalla breccia, oggi ormai divenuta antica, da quel che dà a intendere il regista, al debutto con le idee chiare sui segni d’ammicco che non aggiungono punteggi al botteghino (anche se Tarantino, uno che di richiami citazionistici lontani dallo slavato snobismo dei falsi esperti di cinema d’autore, se ne intende, la pensa in modo diametralmente opposto: la citazione è un uovo di Pasqua con la sorpresa dentro per chi mette Godard ed Enzo Girolami Castellari sullo stesso piano). Chiediamo pure al regista, un autentico fiume in piena, se insieme ad Amarcord, di Fellini, ai mistery d’alto cabotaggio, ai women’s picture di Cukor, alla romanità fiera, popolana ed erudita che impreziosisce Nell’anno del signore di Magni, dal quale trae partito apertamente in Gli anni belli, i film impersonati da Tomas Milian nei panni ora del Monnezza ora del commissario Nico Giraldi, trucido come pochi ma leale come nessun altro, abbiano costituito un’ispirazione altrettanto forte per imprimere alla conoscenza intima della materia trattata quel certo non so che in grado di fungere da portafortuna al di là dell’esito stilistico dell’opera prima in sé. La replica non risulta priva d’interesse: “Ce li abbiamo messi questi riferimenti, dal Monnezza ad Anna Karenina (si presume la versione del 1939 diretta da Clarence Brown con Greta Garbo, non una qualsiasi quindi), perché ci piacevano. Perché ci davano la carica. Al di là della logica narrativa. Che magari ci portava da un’altra parte. Molto onestamente ribadisco che non m’interessa che fruttino come richiami. Se poi riescono a far ridere, divertire ed emozionare anche qualcun altro, a parte noi, ebbene ben venga. Tanto di guadagnato. Ma lo scopo non era quello. Sappiamo, ribadisco, che molte cose ai ragazzi odierni non arriveranno. Ma il divertimento procurato dal ricorso al richiamo citazionistico ci ha permesso d’inserire con serenità ed entusiasmo ulteriori chiavi di lettura”.

Maria Grazia Cucinotta impersona l’ennesima madre di buon senso. Pacifica. Ma che al momento giusto sa tirar fuori le unghie per sottrarre il marito, interpretato dal bravo Ninni Bruschetta, dalle grinfie della sfascia-famiglie di turno, in vacanza però operativa, e la figlia sedicenne, munita del volto pulito ed empatico di Romana Maggiora Vergano – con la parlantina capitolina a supporto per le battaglie sociali targate Cartagine persino nel 1994 – dal rischio che i luoghi comuni compromettano i veri legami di suolo e, specialmente, di sangue. Chiediamo altresì se si è creata la stessa atmosfera instauratasi sul set dell’apologo malincomico sull’importanza di partecipare all’altalena dell’esistenza Tutto liscio! per la regìa di Igor Maltagliati. Maria Grazia ha risposto col consueto garbo, fatto di educazione ed elusione legandosi alla domanda precedente indirizzata al regista: “Io penso che nel nostro film Gli anni belli le nuove generazioni possano trovare, nonostante i social, internet, le forme di comunicazione dei nuovi media, molti punti di contatto con le vecchie generazioni. Cambiano i vestiti. Cambiano la moda, le tendenze di punta. Ma i sentimenti, e ciò che contengono, si ripetono costantemente. Mi è piaciuto impersonare questa madre che è anche una donna innamorata del marito. Intellettuale. Severo con la figlia. Distratto con la moglie. Spesso i genitori quando i figli diventano adolescenti dimenticano di essere stati a loro volta adolescenti. Dimenticano i loro sogni, le ubbie, gli slanci, le polemiche, le cavolate che si possono fare in quei casi. Quando si hanno quindici anni. I genitori che credono di poter far pensare i figli e le figlie quindicenni con la loro testa commettono un errore molto comune. Rientra nei corsi e nei ricorsi storici.  Mi sono divertita ad affrontare questo ruolo. Lo ritengo un ruolo utile. Mi piace interpretare le storie adatte per la mia età. E questa, in particolar modo, racconta tante verità. Che sono passate. Ma sono anche presenti“. L’attrice portoghese Ana Padrão nei panni della sfascia-famiglie che fa la mamma del figlio adolescente quando si ricorda e viene rimessa in carreggiata al momento giusto ci tiene ad aggiungere quanto segue: “La sceneggiatura mi è piaciuta molto: è arguta, piena d’umorismo, di trovate intelligenti. Mai banali. Anche il ruolo mi è piaciuto. Perché rifugge dagli stereotipi. È sfumato. Non tagliato con l’accetta. La donna che interpreto non è né buona né cattiva. Ha il suo punto di vista sulle cose in questione. Sull’educazione dei figli e sui sentimenti che durano per sempre e il tempo di un’estate. Ed è per questo che ho accettato di prendere parte a Gli anni belli. Insieme ad attori italiani e ad attrici italiane che stimo. E che mi hanno trattata bene. E con cui mi sono sentita bene. Si è creata l’energia giusta per fare un film come si deve”. Al di là del pluralismo dei punti di vista, dei pareri invece concordi da parte dei produttori e del resto del cast, delle associazioni di mutuo entusiasmo, come le avrebbe chiamate il regista della soap-opera ospedaliera in Tootsie di Sydney Pollack, per restare in ambito citazionistico, adesso spetterà alla critica fare da intermediaria tra pubblico e autore, all’esordio, per stabilire come se l’è cavata la squadra messa sù ne Gli anni belli con i corsi e ricorsi storici in salsa cinefila e generazionale. Anche se, ripetita iuvant, la parola, quella decisiva, spetterà al pubblico. Agli spettatori che pagano il biglietto. Come è giusto che sia.

 

Massimiliano Serriello