Quasi Natale: le varianti del cinema da camera di Francesco Lagi

Il passaggio dalle tavole del palcoscenico allo schermo rappresenta la prova del nove per l’ambizioso dramedy Quasi Natale, in arrivo su Sky Prima Fila il 26 Febbraio 2021.

Rispetto all’omonima pièce, che la compagnia Teatrodilina ha portato in scena oltre due anni fa toccando un punto nevralgico con la cura dei particolari dalla valenza evocativa, l’eclettico regista Francesco Lagi introduce ammiccanti interpolazioni contenutistiche ed elementi formali d’alta scuola nella speranza di dare maggior evidenza all’intrinseco ritratto delle cose.

Gli esami comportamentistici ivi connessi dei tre fratelli costretti dalla malattia della madre a compiere un amaro bilancio esistenziale, compensato a stento dall’abitudine di stemperare l’angoscia nel gusto della battuta ridimensionante, sembrano trarre partito dall’erudito lavoro di sottrazione d’ascendenza bressoniana. Tuttavia, a ben guardare, la rara virtù di togliere al visibile per aggiungere all’invisibile, ed ergo alla forza significante della vena immaginifica, cede il passo ad alcune formule arcinote. Applicate per riuscire ad assicurare al film tanto i modi asciutti dell’antiretorica, gradita ai cinefili più scaltriti, quanto l’ampio margine d’enigma a sostegno della suspense. Eletta ad antidoto contro gli sbadigli dovuti alla scarsa dinamizzazione degli eventi. L’ennesima giornata particolare scorre ugualmente lenta. A dispetto degli stratagemmi escogitati per sopperire all’impasse dei timbri soporiferi. Ed è una lentezza tutt’altro che ipnotica. L’interpretazione del cast, sebbene degna di lode per la capacità di unire le doti mimiche alla naturalezza dei dialoghi, stenta ad accrescere l’appeal degli eloquenti silenzi. Contraddetti in ogni caso dall’enfatica colonna sonora. Lungi dall’assegnare alle note intimiste la varietà di toni rinvenibile nella pittura dei caratteri. Con la fragile Chiara avvezza ai soprassalti d’inopinata ferocia. Persino nei riguardi dei consanguinei.

Le pieghe psicologiche, impreziosite dapprincipio dalla mutevolezza umorale congiunta alla tipica altalena degli stati d’animo, pagano dazio nella seconda parte al vano proponimento di ricavare dall’analisi clinica sia degli scatti d’ira sia del contesto graffiante lo slancio dell’assurdo poetico. La predilezione programmatica delle risapute pennellate derisorie, frammiste alla tensione figurativa garantita anche dall’accorta fotografia, impedisce al divertissement di cogliere davvero di sorpresa gli spettatori e attribuire al peso impalpabile di certe “malincomiche” parole pronunciate a fior di labbra, al contrario delle frasi di rito, l’idoneo spessore. Le reazioni diametralmente opposte tra loro di Michele e Isidoro dinanzi all’instabilità emotiva della sorella, il cuore in subbuglio a causa dell’analfabetismo sentimentale, esacerbato sin dai tempi dell’età verde, l’accorata riflessione suggerita dal grigiore morale impresso dall’attenta gamma cromatica, i contrasti chiaroscurali, conformi all’immancabile dialettica d’interni claustrofobici ed esterni catartici, tradiscono un procedimento troppo in superficie per andare sotto pelle.

La penuria d’intense sfumature non può essere compensata dal compiaciuto gioco luministico al buio dell’albero di Natale nella casa di famiglia. Né dal taglio degli spazi chiusi e dal vano ripiego in sbilenche angolazioni. Restie ad approfondire le solite traversie nascoste dal nocivo rituale dell’apparenza. Così, quando i nodi vengono immancabilmente al pettine, con l’amorevole Miriam che cerca di capire sul serio gli opprimenti demoni privati dell’inquieta cognata Chiara, il desiderio di uscire dalla gabbia delle convenzioni risulta appena abbozzato. Ed ergo privo di qualsivoglia sprint. L’interludio panteistico che cadenza affannate corse notturne ed estatiche pose, alla ricerca dell’aura contemplativa, preferita all’azione perentoria, non va oltre il saldo professionismo estraneo ai colpi d’ala delle immagini mentali. Le esornative modalità di presenza dei paesaggi, inscritti dentro riprese distanti anni luce dal valore simbolico ad appannaggio del fecondo rapporto tra cinema e territorio, chiudono il cerchio. Nonostante l’abile montaggio alternato rilevi l’emblematica distanza determinata in primo luogo dall’incomunicabilità, l’epilogo di Quasi Natale sa parecchio di predicatorio. Con buona pace dell’ostentata egemonia iniziale del sapore della satira sulle smielataggini da soap. Ad alzare bandiera bianca alla fine è l’inane mira visionaria d’incrementare l’allegoria dell’habitat penetrandone la complessità nell’ordine ora del burlesco ora del rammarico.

 

Massimiliano Serriello