Rapito: Marco Bellocchio tra iconografia e iconoclastia

Da una parte tutti quei “poveri Cristi” crocifissi, ovunque e quantunque, in una debordante e ossessiva smania di rappresentazione; dall’altra l’assoluta mancanza di immagini sacre: questa significativa e radicale differenza costituisce, dal punto di vista cinematografico, una circostanza che Marco Bellocchio non poteva non considerare e porre in maniera decisiva.

E, infatti, durante Rapito varie sono le sequenze che sottolineano ripetutamente, sul piano visivo, tale incolmabile scarto. Che poi si traduce specificatamente nella dialettica visibile-non visibile, in campo-fuori campo. Una questione, questa, che da sola, basterebbe a far versare fiumi di inchiostro. All’ostinata iconografia cristiana si giustappone l’iconoclastia ebraica.

Su questa incommensurabilità si gioca una partita estetica suprema che, però, non deve trarre in inganno. Se è vero che il non visibile rimanda a un senso che non può essere compresso in un ordine simbolico circoscritto, in conformità a una certa “autenticità ontologica”, anche la rappresentazione, dal canto suo, attraverso una precisa scansione, quel passione-morte-resurrezione dell’escatologia cristiana, può condurre a una riformulazione dell’immaginario che libera nuovi orizzonti visivi ed etici.

Questa premessa era necessaria per far comprendere quanto Rapito, in concorso al Festival di Cannes 2023, sia un’opera di ampio respiro, in cui Bellocchio parte da una vicenda senz’altro estremamente interessante per la sua valenza religiosa, politica e storica, riuscendo, però, al tempo stesso, ad alludere a tante, importanti questioni, senza lasciarsi ingabbiare dalla volontà di mettere in scena una ricostruzione fine a se stessa. Il caso di Edgardo Mortara, infatti, per la forza della sua storia, aveva anche interessato Steven Spielberg, che poi abbandonò il progetto.

Il regista di Piacenza mantiene saldamente il timone della narrazione, aprendo altresì numerose e imprescindibili parentesi, dando corpo a un oggetto strutturato su più livelli, che offre diverse sollecitazioni – emotive, culturali, etiche ed estetiche – allo spettatore, il quale assiste a una vorticosa staffetta tra numerosi e distinti movimenti interni al film. E a decretare il buon esito di tale operazione è l’armonia della sintesi delle varie suggestioni, che coinvolgono senza interruzioni per le oltre due ore di durata. Decisiva, senz’altro, era la presenza del piccolo protagonista del film (Edgardo a sei anni, quando venne sequestrato), ma Bellocchio non poteva scegliere meglio: Enea Sala commuove e impressiona per la sua compostezza e credibilità, per la straordinaria capacità di gestire i movimenti, le espressioni e le emozioni. Conquista fin da subito il suo naturale saper stare sul set. E non è da meno il resto del cast: i bravissimi Fausto Russo Alesi e Barbara Ronchi, che interpretano i genitori del bambino, nonché Paolo Pierobon, che dà magnificamene corpo alla figura di Pio IX, un pontefice “ostinato”, che resistette alla pressione dell’opinione pubblica di tutto il mondo, decidendo di tenere ferma la sua decisione di sottrarre il minore alla propria famiglia di origine, per impartirgli un’educazione cattolica.

E, infine, l’ancora una volta eccellente Fabrizio Gifuni, nei panni dell’algido inquisitore di Bologna. L’unica, limitata osservazione che può essere mossa concerne la presunta “schizofrenia” di Edgardo, che nel film emerge in un paio di passaggi, quando assume un atteggiamento violentemente ambivalente nei confronti del Papa rapitore. È una connotazione che Bellocchio si sente libero di fornire al personaggio, ma che, visto l’epilogo della vicenda, appare più come una decorazione ulteriore, non necessaria. Quel ragazzino, strappato alle sue radici affettive, culturali e religiose, fu completamente sussunto dal nuovo mondo in cui venne trascinato con la forza. E, a tal proposito, impressiona non poco la scena in cui, da adulto, sul capezzale della madre morente, tenta di convertila al cristianesimo. Stupisce la capacità di Marco Bellocchio di mantenere, alla sua veneranda età, un’inesauribile vivacità creativa. Rapito è un film travolgente che non mancherà di appassionare il pubblico. Per tale motivo, sarebbe auspicabile ricevesse il giusto riconoscimento alla competizione francese in corso.

 

 

Luca Biscontini