Autore sempre attento a cogliere la contemplazione del reale dalla crudezza oggettiva dell’attualità, riuscendo ad anteporre alle visioni manichee del rapporto tra sfruttatori e sfruttati uno sguardo più ampio ed esaustivo, in virtù dei timbri antropologici connessi ai vincoli di suolo, l’esperto regista Aurelio Grimaldi travalica dapprincipio in Raqmar i patrii confini dei film d’impegno civile incentrati sui misfatti compiuti nel Bel Paese.

L’incipit, sulla scorta dell’elaborazione critica mandata ad effetto dai documentari per impreziosire le testimonianze audiovisive attraverso le notevoli risorse della geografia emozionale, piomba man mano nella musica locale, all’interno degli habitat, dentro i fatti di tutti i giorni. Ritratti tramite il gioco fisionomico d’un gruppo d’ingenui giovanotti dello sconosciuto ed emblematico villaggio berbero del titolo nell’ambito dell’infingardo confessionale organizzato dalla cinica organizzazione italiana allo scopo di reclutarli nel mondo della prostituzione maschile d’alto rango che a Genova cova sotto la cenere.

L’indubbia capacità di tenere lì per lì gli spettatori col fiato sospeso, in merito alle promesse fatte alle varie famiglie nella subdola operazione di reclutamento dei loro figli, assicurando un lauto stipendio, impensabile agli occhi di chi tribola dalla mattina alla sera lungo la steppa nei pressi del deserto, si va ad appaiare alle suggestioni, specie per i cinenauti sedotti dai paesaggi riflessivi ed esotici, degli ovili in pietra, delle sporgenze rocciose, delle abitazioni posizionate spesso in gradinata, dei riti arcaici previsti nei modesti consorzi domestici, del mix d’interni disadorni ma rivelatori ed esterni panteisti. Catturati nella loro ampia ed evocativa gamma cromatica dalla virtù di scrivere con la luce in possesso dell’avvertita fotografia. L’approdo degli avventizi “battoni” marocchini nel capoluogo ligure suggella un netto mutamento di segno. Innescato dall’arte della recitazione. Fuori dalla portata dei documentari senza cast. L’inversione di tendenza sancita dall’amabile ed elegante madame Le Fleur impersonata con algida efficacia da Giuliana De Sio, in grande spolvero mentre padroneggiando la lingua francese detta le regole ai paria che invece si esprimono a monosillabi, sembra trarre partito dagli apologhi d’oltreoceano sull’egemonia del profitto tipo Americani di James Foley e Margin call di Jeffrey McDonald Chandor.

Il cambiamento di rotta rispetto all’approccio dell’inizio, incentrato sulla forza significante dei volti d’ascendenza pasoliniana e sulla meta raggiunta, eletta a teatro a cielo aperto carico di senso, rinuncia al previo magnetismo lirico ed etnografico, stabilito tanto dallo scugnizzo autoctono con la maglia del Brasile quanto dalle vedute extraurbane che riverberano in filigrana l’infida ragione d’un viaggio alla scoperta dell’alterità imposto dal bieco interesse, ed espone nelle direttive passo per passo del braccio destro di madame Le Fleur, Rodolfo, una fertile alternativa alle opere esclusivamente d’inchiesta. Il lavoro di sottrazione adottato per eludere l’esplicitezza dei congressi carnali con clienti perversi ed elitari, dalle milf dai modi in apparenza gentili agli invertiti nababbi col coltello dalla parte del manico, resta però in superficie. Anziché chiarire ed esporre in maniera maggiormente elegiaca l’altalena di stati d’animo trattenuti ed esami comportamentistici d’origine eduardiana, che quindi non finiscono mai, con la finezza di tocco degli aedi dell’antiretorica. L’acume di Grimaldi, seppur lungi dall’esaurirsi nei movimenti di macchina da destra a sinistra attinti, inconsciamente o meno, ad Accattone del nume tutelare Pier Paolo Pasolini, che nell’equiparare le carrellate sui volti neolitici dei marchettari obtorto collo provenienti dal villaggio misconosciuto del Sahara agli avanzi di galera del Pigneto allineati in un confronto all’americana lasciano presagire qualcosa d’innaturale ed ergo d’ingiusto in arrivo, appare estraneo alla maestria di togliere sul serio al visibile per aggiungere all’invisibile.

La dose massiccia di espliciti messaggi cifrati, tipo la spiaggia di ciottoli a Boccadasse in cui le onde trascinate dal vento in chiave amena sulle note della celebre canzone transalpina La Mer di Charles Trenet anticipano il controcampo dell’acre bonaccia in agguato, stenta dunque ad assorbire in un quadro autenticamente poetico la prevalenza degli imperativi utilitaristici sugli assilli morali a discapito dell’età verde. Approfondita al contrario dalla sorprendente psicotecnica recitativa del bravissimo Mehdi Lamsabhi nei panni dell’illuso Hichman. Che raggiunge nella Città Eterna l’imprenditore siciliano dedito alla doppia vita. Interpretato con una mirabile precisione di accenti contraddittori, innescati dall’indicativa mutevolezza dell’umore, ed empatiche sfumature. Dovute alla silente consapevolezza di appartenere a un sistema veicolato dal vil denaro. Colpevole di rubare l’innocenza ai figli di lande sperdute e bellissime. L’analisi dei luoghi identitari distanti, degli spazi accattivanti della nostra Penisola, di quelli alienanti, delle porte chiuse sulla medesima falsariga di Michael Haneke in Il nastro bianco trascende appieno l’infeconda accidia delle idee prese in prestito. Grimaldi, attingendo ai propri sempiterni modelli di riferimento, sia nell’ambito della fabbrica dei sogni, che scoperchia secondo copione gli incubi a occhi aperti, sia sul versante letterario, con il verismo di Verga sugli scudi, ci mette lo stesso parecchio del suo per appaiare l’urgenza dell’amarissima contemporaneità alla necessità assoluta dell’unhappy end. Che consente a Raqmar in zona Cesarini, dopo qualche concessione di troppo all’enfasi di maniera, per evidenziare l’abietta prassi di nascondere nel carezzevole benessere la natura predatoria di chi commercia in sesso approfittando della miseria materiale delle prede da irretire, d’offrire un confronto comunque da brividi coi poveri di spirito. Indotti ad assaporare l’empio vantaggio finanziario dai peggiori impulsi concepibili. Alieni ai migliori angeli dell’indole umana. Cari ad Abraham Lincoln.


Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Plugin WordPress Cookie di Real Cookie Banner
Verificato da MonsterInsights