Recensione: Elle, torbido dramma psicologico con Isabelle Huppert

Elle

Il provocatore Paul Verhoeven dirige una grande Isabelle Huppert in Elle, torbido dramma psicologico.

Una donna cinica e di successo

Elle è un adattamento cinematografico del romanzo del 2012 Oh… scritto da Philippe Djian (edito in Italia da Voland). Siamo in una Parigi meno riconoscibile e quasi anonima; Michèle (Isabelle Huppert), produttrice di videogiochi, quasi cinquantenne e divorziata è appena tornata a casa, dove nessuno l’aspetta tranne un uomo con relativo cappuccio che la violenta malmenandola. Ma lei invece di piangere, lamentarsi, rimette a posto la stanza con calma, poi si va a fare una doccia e riprende la vita come sempre. E’ una donna forte, capace di giudizi taglienti, ai limiti del cinismo e di successo, continua a lavorare e a dirigere un gruppo di giovani che la detestano senza nemmeno nasconderlo tanto, fa sesso con Robert (Christian Berkel) il marito della sua cara amica e socia Anna (Anne Consigny) con cui ha anche un’attrazione, ed ha un figlio, Vincent (Jonas Bloquet), un ragazzo che lavora in un McDonald’s, molto sfasato e fidanzato con Josie (Alice Isaaz), in attesa di un figlio che risulterà non suo. Tuttavia lo stupro le ha lasciato un segno e Michèle decide di andare a comprare un martello e uno spray urticante. Poi a cena a ristorante con il suo ex marito Richard (Charles Berling), sceneggiatore senza fortuna forse per mancanza di talento, la sua amica-socia e il marito, conversando comunica che è stata stuprata, naturale meraviglia degli astanti, ma poi si passa a ordinare la cena.

La vita prosegue normalmente e così conosciamo gli altri del mondo di Elle, la madre Irène (Judith Magre), una specie di caricatura patetica e grottesca della femme fatale, fidanzata di Ralf (Raphaël Lenglet), un ragazzo marchettaro che intende sposare contro il volere della figlia, e veniamo a sapere che il padre è da oltre trent’anni in prigione per aver massacrato una mattina 27 persone e adesso aspetta la grazia. E poi c’è nella palazzina di fronte una classica coppietta dolce e borghese, Patrick (Laurent Lafitte) e Rebecca (Virginie Efira), con cui Michèle scambia gentilezze e qualche chiacchiera. Ogni tanto però continua a pensare all’uomo che l’ha stuprata, immagina che possa essere uno sceneggiatore di cui ha criticato il lavoro, oppure un uomo che vuole vendicarsi di qualche ipotetica ingiustizia subita, uno sconosciuto senza volto e identità. Nel frattempo viene a sapere che il suo ex marito convive con una studentessa universitaria e decide di conoscere Hélène (Vimala Pons). E intanto la vita continua, arriva il Natale e tutte queste persone si ritrovano invitate a casa sua per la sera del 24. Sembra così un po’ la data di demarcazione di un cambiamento di Michèle, che decide di aiutare il figlio e anche la madre che vuole che lei vada a trovare suo padre in carcere e come desiderio di accordargli il suo perdono. Tutto lentamente sembra tornare a posto. Naturalmente ci saranno dei morti, qualche spiegazione spiacevole, qualche abbandono e qualche riavvicinamento. Tanto in questa società qualsiasi cosa è possibile e ogni intenzione praticabile.

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L’esercizio di stile di Paul Verhoeven

Sin dalla comparsa sulla scena cinematografica olandese, Paul Verhoeven si è mostrato un regista fuori dagli schemi, un po’ provocatore; inseriva sesso esplicito con leggerezza e divertimento, aveva quella bonomia che rendeva i suoi lavori originali, alternativi, anche irriverenti, ma senza una reale profondità. Ricordiamo Gli Strani amori di quelle signore (1971) ma soprattutto Fiore di carne (1973) e il pruriginoso Kitty Tippel (1975). Con i suoi primi film ha scoperto due attori diventati anche loro alternativi, Rutger Hauer e Monique van de Ven. Poi dopo altri film tra cui bisogna ricordare Il quarto uomo (1983) si può parlare di periodo americano, in cui ha radicalizzato la commistione sesso e violenza e passerà alla storia come il regista di Robocop e di Basic Instinct. Negli Stati Uniti insomma si è ben inserito nello star system, lasciando qualche traccia ma certo non realizzando alcun film indipendente o alternativo. Adesso, a quasi ottant’anni, ritorna in Europa e gira un film francese, uno di quei film che avrebbe diretto con più suspense e sagacia un maestro come Chabrol o, si fosse voluto un film più analitico, Haneke. Perché per realizzare un film nero, scorbutico e fuori dagli standard come questo, serve un regista che abbia una reale idea di regia e di feroce critica verso la gentile borghesia francese. Invece Verhoeven sembra un puro esecutore di una sceneggiatura assai interessante ma che estremizza delle storie rendendole più grottesche che amare, tutte uguali moralmente e in fondo per un amorale come lui sembra divenire più un esercizio di stile che non un film che lascia una vera traccia. Infatti in alcuni passaggi psicologici sembra più di assistere ad un film alla Bunuel surrealista che non a un film nerissimo e di dura critica ai valori di una classe sociale ormai in declino. E nonostante la naturale bravura di una grandissima attrice come Isabelle Huppert in alcuni momenti la sua mimica, che dovrebbe mostrare indifferenza anche al pericolo, si mostra un po’ fissa e indeterminata. In fondo si può capire da film del genere a che livello politico ed estetico è giunto il cinema europeo. Per il resto una gran bella fotografia, della musica condivisibile, un buon montaggio e un cast d’attori che singolarmente funziona ma che quando interagisce con il proprio partner sembra improbabile.

Abbiamo visto Elle, regia di Paul Verhoeven, con Isabelle Huppert, Laurent Lafitte, Anne Consigny, Charles Berling, Virginie Efira. Genere Drammatico, Francia, 2016, durata 130 minuti. Uscita cinema giovedì 23 marzo 2017.

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Domenico Astuti