Recensione: Fabrizio De André. Principe libero, lo chiamavano Faber

È alla memoria degli attori Ezra J. Minicillo e Paolo Villaggio che è dedicato Fabrizio De André. Principe libero di Luca Facchini, che, sebbene concepito come fiction televisiva da trasmettere su Rai Uno il 13 e il 14 Febbraio 2018, gode prima di un passaggio cinematografico il 23 e 24 Gennaio precedenti.

Un biopic che, con il citato Fantozzi del grande schermo magnificamente incarnato da Gianluca Gobbi, intende ripercorrere – come il titolo stesso suggerisce – la vita del popolare cantautore e poeta genovese detto Faber e prematuramente scomparso nel 1999, il quale era molto amico, appunto, di colui che sarebbe diventato il ragioniere più sfigato della comicità tricolore su celluloide.

Un biopic che apre nel momento in cui, interpretato dal Luca Marinelli di Non essere cattivo e Lo chiamavano Jeeg robot,  l’autore di Bocca di rosa viene rapito in Sardegna, nel 1979, insieme alla compagna Dori Ghezzi alias Valentina Bellé, per poi ripartire dalla Genova del 1954 e raccontare la sua adolescenza.

L’adolescenza di un artista convinto che essere anarchico fosse darsi delle regole prima che gliele dessero gli altri e che, da sempre caratterizzato da una speciale curiosità e perennemente in opposizione all’autorità in famiglia e sui banchi di scuola, sviluppò presto una grande sensibilità nei confronti delle vite degli ultimi, trovandosi a suo agio più con gli emarginati dei carruggi che nelle feste borghesi dei conoscenti.

E, se Elena”Alaska”Radonicich ed Ennio Fantastichini vestono rispettivamente i panni della prima moglie Puny e del padre di lui Giuseppe, il Matteo Martari di 2night viene calato brevemente in quelli del tragicamente scomparso collega Luigi Tenco; del quale, tra l’altro, la ricca colonna sonora include la storica Ciao amore ciao e Quando.

Quest’ultima interpretata dallo stesso Marinelli, come pure diversi dei pezzi mitici deandriani, da Rimini a Il pescatore, passando per la splendida Canzone dell’amore perduto.

Pezzi che vanno ad affiancare l’esecuzione di Mina de La canzone di Marinella e un’infinità di incisioni originali (citiamo soltanto Amore che vieni amore che vai e Hotel Supramonte).

Ma, se da un lato a non funzionare troppo è proprio il solitamente apprezzabile protagonista, qui di sicuro in una delle sue prove meno convincenti, dall’altro, tra frequentazione di prostitute, strada verso il successo e forte dipendenza dall’alcool, il tutto viene amalgamato in oltre tre ore e dieci di visione minimamente coinvolgenti e prive di particolari guizzi.

Probabilmente destinate a funzionare meglio in tv, spartite in due puntate.

Francesco Lomuscio