Recensione: La forma dell’acqua – The shape of water, un uomo pesce, una donna

Se, in un primissimo momento, il 1962 in cui facciamo conoscenza con la muta Elisa Esposito alias Sally Hawkins sembra guardare agli anni Cinquanta del Creature del cielo di Peter Jackson, è impossibile non intuire che la principale fonte d’ispirazione per mettere in piedi la atipica vicenda sentimentale che coinvolge la addetta alle pulizie in questione sia il super classico Universal Il mostro della laguna nera, diretto nel 1954 da Jack Arnold.

Del resto, non solo, in maniera analoga a quella pellicola che generò anche due sequel, La forma dell’acqua – The shape of water propone una creatura anfibia che si presenta in qualità di ibrido tra uomo e pesce, ma il fatto che essa finisca all’interno del laboratorio governativo dove lavora la donna, destinata ad innamorarsene, ci consente di far rientrare entrambi i titoli nell’ambito delle riletture in fotogrammi del mito della bella e la bestia.

E, considerando che dietro la macchina da presa si trovi il messicano Guillermo del Toro, tutt’altro che nuovo a determinate operazioni di questi tipo in quanto anche reduce dal poco riuscito omaggio hammeriano Crimson Peak, il citato modello di partenza è con ogni probabilità azzeccato.

Ma, se, capace di restituire i brillanti colori dei fanta-movie a stelle e strisce di oltre mezzo secolo fa, la splendida fotografia di Dan Laustsen si rivela senza ombra di dubbio il maggiore pregio delle circa due ore di visione insieme alle lodevoli prove sfoggiate dai diversi elementi del cast, non si fatica ad avvertire la maniera in cui l’autore de Il labirinto del fauno tenti maldestramente di camuffare da originale love story sovrannaturale un agglomerato che, in realtà, gioca facile trasudando i più banali stereotipi da buonismo su grande schermo.

Infatti, da un lato pone l’infallibile Michael Shannon nei panni del violento e spietato Strickland, dall’altro, oltre alla creatura e alla protagonista, per rincarare la dose di diversità sfrutta le figure della collega di colore Zelda – cui viene oltretutto affidata buona parte dell’ironia – e del vicino di casa omosessuale Giles, ovvero Octavia Spencer e Richard Jenkins.

Creatura che appare, tra l’altro, fin troppo simile all’Abe Sapien interpretato dallo stesso Doug Jones nei due Hellboy (firmati sempre da del Toro) e la cui situazione di sesso acquatico con Elisa è un qualcosa di talmente weird che, almeno nella testa del cinefilo maggiormente addentrato nel sottobosco trash su celluloide, non avrebbe con ogni probabilità sfigurato, a suo tempo, in bizzarrìe a budget ridottissimo di nomi quali Lee Frost o Ray Dennis Steckler, trasudanti spesso ridicolissimi costumi-maschere.

Mentre la narrazione avanza in maniera tanto lenta quanto soporifera e, tra breve momento cantato e accattivante comparto visivo, si nota una continua ricerca di poesia in grado di conquistare, però, soltanto palati molto più facili di ciò che si potrebbe pensare sulla carta.

Francesco Lomuscio