Recensione: The Post, Spielberg, Streep e Hanks, forti come la verità

Oggi, nell’epoca multimediale e dei computer, pensare ad una testata giornalistica con redazione tempestata di macchine da scrivere e pezzi da mandare in stampa sarebbe pura fantasia.

Fortunatamente, il cinema, di tanto in tanto, ci ricorda come funzionavano un tempo le cose, quando, per correre contro il volere di un malsano potere, si faceva di tutto per pubblicare un articolo degno di nota, soprattutto se di mezzo c’era il bene dell’opinione pubblica.

Lo ha fatto nel 2015 il film premio Oscar di Tom McCarthy Il caso Spotlight, al centro della cui trama avevamo uno scottante caso di pedofilia risalente al 2001 e legato al mondo della chiesa cattolica.

Ora lo fa ora il cantastorie per eccellenza Steven Spielberg in una delle sue ultime escursioni seriose e con “i piedi per terra”, a cui ormai ci ha abituati da tempo (si pensi solo a Munich, Lincoln e Il ponte delle spie).

The Post, infatti, racconta la vera storia di una lunga e sofferta vicissitudine affrontata dal giornale The Washington Post, che nel 1971 pubblicò una notizia riguardante i raggiri effettuati dal Governo degli Stati Uniti per poter nascondere agli occhi del popolo la verità sulla guerra nel Vietnam, allora in pieno corso.

Coinvolti in tale lotta per la libertà di stampa furono innanzitutto il direttore Ban Bradlee e la padrona della testata, Katahrine Graham, due figure cardine di tutta la faccenda che possiedono sullo schermo i volti dei premi Oscar Tom Hanks (alla sua quinta collaborazione col papà di E.T.) e Meryl Streep (alla sua prima prova di fronte al regista de Lo squalo).

Due figure che misero le mani su più di una semplice notizia, scoprendo tramite una fonte interna governativa documenti scottanti riguardanti l’allora Presidente degli Stati Uniti Richard Nixon, responsabile di non voler rispettare assolutamente il Primo Emendamento della Costituzione, che recita chiaramente “Il Congresso non promulgherà leggi per il riconoscimento ufficiale di una religione, o che ne proibiscano la libera professione; o che limitino la libertà di parola, o di stampa; o il diritto delle persone di riunirsi pacificamente in assemblea e di fare petizioni al governo per la riparazione dei torti”.

A cavallo con i tempi attuali, che vedono negli Stati Uniti tensioni tra la stampa (anche internazionale) e l’attuale governo Trump, Spielberg decide di ripercorrere questa pagina storica del giornalismo, rinfrescando magari le menti di chi, tuttora, non ricorda come il “quarto potere” abbia avuto modo di fare la differenza.
The Post, quindi, è un lungometraggio che si pone agli occhi dello spettatore in tutto il suo valore contenutistico, schiaffando ogni singola sfaccettatura e parentesi importante di quella intrigante storia con fare meno romanzato possibile, affidandosi ad un ritmo pacato e coinvolgente a livello implosivo, come lo script a cura di Liz Hannah e Josh Singer (quest’ultimo premio Oscar appunto per Il caso Spotlight) si prende la briga di fare.

Inoltre, primeggiano le lodevoli prove dei già citati Streep e Hanks, mentre a fine visione si prova tutta la nostalgia di un giornalismo oggi assente a livello mediatico.

Ciò che, forse, non funziona è il fatto che la narrazione impieghi oltre mezzo film a rendere chiaro ogni intento, costringendo lo spettatore ad assistere ad una caratterizzazione di eventi e personaggi che poco suscitano l’interesse iniziale.

Anzi, per tutto quel lasso di tempo non si riesce a provare una vera, totale, empatia per i personaggi della Graham e di Bradlee, salvo poi chiudere il cerchio con l’esaltante mezz’ora finale, dove Spielberg sfodera tutto il suo sapere di regista delle emozioni forti.

In sintesi, una narrazione non potente quanto l’argomento trattato, che, comunque, viene recepito in tutta la sua importanza.

Mirko Lomuscio