Recensione: “Una volta nella vita”, il film che racconta ai ragazzi di oggi la Shoah. Da vedere.

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Oggi, 27 gennaio, è il Giorno della Memoria. Come ben sapete in questa giornata, istituita 10 anni fa, si commemorano le vittime dell’Olocausto. E non è casuale che proprio oggi arrivi nei cinema il film francese “Una volta nella vita” (Les Héritiers) della regista Marie-Castille Mention-Schaar.

Siamo nel Liceo Léon Blum di Créteil, nella banlieue sud-est di Parigi. La scuola è uno dei tanti simboli del degrado che caratterizza la periferia parigina, in un incrocio esplosivo di etnie, confessioni religiose e conflitti sociali tra povertà e arretratezza culturale. Una classe in particolare, la IIa A, è considerata la peggiore della scuola, formata com’è da ragazzi indisciplinati, rissosi e assolutamente svogliati. Tutti i professori (o quasi) hanno alzato bandiera bianca mentre la professoressa Anne Gueguen (Ariane Ascaride), che insegna storia dell’arte, riesce a conquistarsi l’attenzione e il rispetto da parte dei ragazzi. Ha quindi un’idea per risollevare le sorti della classe, proponendo ai suoi alunni di partecipare a un concorso nazionale, a cui ogni anno prendono parte oltre 40.000 studenti francesi, dedicato alla Resistenza e alla Deportazione degli ebrei francesi. Dopo un’iniziale opposizione sia dei disinteressati studenti sia dei docenti (che vorrebbero farvi partecipare una classe ben più preparata), la prof. Gueguen riesce a fare breccia nelle giovani menti dei suoi ragazzi, guidandoli in un sorprendente viaggio nella memoria alla scoperta della Shoah, che cambierà le loro vite aiutandoli anche a modificare i difficili rapporti tra loro.

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Tratto da una storia vera, il film è stato scritto proprio da uno dei giovani studenti di quella disastrata classe del 2009, Ahmed Dramé. Curiosamente il ragazzo, oggi 22enne, interpreta anche uno degli alunni del film, Malik, mentre gli altri sono in parte attori e per il resto ragazzi presi dalla strada, un po’ come faceva Pasolini. Davvero intensa Ariane Ascaride nel ruolo della tenace professoressa-mentore. Nella prima parte del film, più dinamica e fulminante, c’è un perenne scambio di battute tra alunni e professori, in una sorta di guerra su chi riuscirà a dire l’ultima; nella seconda parte, invece, la preparazione per il concorso rallenta un pochino il ritmo, pur conservando una discreta brillantezza. Il culmine arriva sicuramente quando i ragazzi incontrano l’ex deportato Léon Ziguel che gli (e ci) racconta la sua tragica storia nel lager, in un momento in cui finzione e realtà si fondono, visto che anche gli attori lo hanno incontrato per la prima volta al momento delle riprese, quindi ne vediamo le naturali reazioni al suo racconto.

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Per il resto vediamo i ragazzi quasi sempre all’interno della scuola, mentre sono pochi i momenti di “vita privata” e tutto l’approfondimento psicologico dei loro personaggi avviene tra le mura del liceo. Ne esce fuori un film non perfetto, ma comunque molto interessante e più che godibile, che spiega/racconta in modo egregio la shoah soprattutto a chi ne sa poco o nulla, con un linguaggio semplice e adatto ai giovani. Andrebbe assolutamente proiettato in tutte le scuole, sia medie che superiori, perciò se siete dei professori portate le vostre classi a vedere questo film, varrà più di 10 lezioni di storia moderna! E se invece siete dei genitori, portateci i vostri figli, ne saranno sicuramente stimolati, visto che racconta le vite scolastiche dei loro coetanei.

VOTO: 7

 

UNA VOLTA NELLA VITA_1 © Guy Ferrandis - dal 27 gennaio al cinema

A seguire, un’interessantissima intervista con il protagonista Ahmed Dramé, che ha scritto il film dopo aver vissuto in prima persona la vicenda sei anni fa.

 

Ivan Zingariello


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INTERVISTA CON AHMED DRAMÉ

Ahmed Dramé, lei ha co-sceneggiato il film e interpretato uno degli allievi. Può raccontarci questa avventura?

Nel 2009 ero in questa classe di prima liceo, ho vissuto in prima persona questa storia e mi ha profondamente cambiato. La partecipazione al Concorso nazionale della resistenza e della deportazione ha trasformato la mia vita e quella dei miei compagni. Ma è stato soprattutto l’incontro con Madame Anglès, ribattezzata Madame Gueguen nel film, a segnarci. Per spiegare bene, è necessario che rievochi la mia vita di prima. Quando sono arrivato alla scuola secondaria di primo grado dell’Istituto Léon Blum non conoscevo nessuno. L’ultimo anno, malgrado una media generale decorosa, gli insegnanti decisero che non avrei superato gli esami, che non ero tagliato per lo studio, come spesso capita a coloro che non provengono da un ambiente privilegiato. Mia madre si è battuta in tutti i modi affinché io cambiassi orientamento e venissi ammesso al liceo Léon Blum. Quindi ci sono arrivato con una certa tensione e la paura di sentirmi fuori luogo e di non essere all’altezza. L’incontro con Madame Anglès, la professoressa di storia che era anche l’insegnante più importante, è stato fondamentale. Era una donna di polso e tutti noi avevamo voglia di ascoltarla. All’inizio dell’anno scolastico, la professoressa si è assentata per un mese a seguito della morte della madre. In quel periodo, diventammo francamente irrequieti. Piovevano sanzioni dalla presidenza e ci furono due sospensioni temporanee. Eravamo la peggiore delle prime del liceo, la pecora nera della scuola. Detto questo, io avevo sempre frequentato classi difficili, quindi per me la situazione non cambiava più di tanto. E in quel frangente, esattamente come nel film, c’erano sette elementi motore e diedero un gran filo da torcere alla supplente. Poi tornò Madame Anglès e preferì proporci quel concorso piuttosto che affossarci, contro il parere del preside che avrebbe voluto che lei scegliesse la classe europea.

Come reagì la classe?

Ci furono commenti idioti del tipo: «Signora, ne abbiamo abbastanza della Shoah, perché dobbiamo parlare tutto il tempo degli ebrei?». All’annuncio della proposta io rimasi neutrale. Non posso dire che avevo voglia di farlo, ma nemmeno che non ne avevo voglia. A 16 anni ci si lascia facilmente influenzare. Ho preferito concedermi un momento di riflessione. È stato Joe, un amico del mio quartiere che era professore di storia e geografia in un liceo privato ebraico e che giocava a calcio con i ragazzi del rione, a convincermi. Il tema ci terrorizzava: “I bambini e gli adolescenti nel sistema dei campi di concentramento nazisti“. Un argomento molto duro. Avevamo paura di non essere all’altezza. Madame Anglès sembrava avere fiducia in noi. Nel giro di poco tempo, abbiamo sentito che le «dovevamo» quel concorso. Dovevamo renderla fiera di noi. Dovevamo rimboccarci le maniche.

Che effetto ha avuto la partecipazione al Concorso nazionale della resistenza e della deportazione?

Innanzitutto abbiamo potuto incontrare persone straordinarie, come Léon Zyguel. Ma è stata anche l’occasione di lavorare veramente in gruppo per la prima volta. Ci sono stati momenti di scoraggiamento. La professoressa è arrivata a dire che pensava di essersi sbagliata sul nostro conto. Ci rimproveravamo l’un l’altro di rubarci le idee, non riuscivamo a capire che lavoravamo per uno stesso obiettivo. La svolta è stata l’incontro con Léon Zyguel, quando ci ha raccontato la sua vita nei campi e il suo arresto quando aveva la nostra età. C’è davvero stato un prima e un dopo Léon.

La classe da cosa è rimasta maggiormente colpita di lui?

Innanzitutto dal fatto che esista veramente! Fa uno stranissimo effetto incontrare una persona che ha vissuto quel periodo. Ci aspettavamo che un ex deportato fosse necessariamente lontano e freddo, molto distante da noi. Léon ci ha subito messi a nostro agio, grazie al suo umorismo. Quando senti certi discorsi, non hai più scuse per non lavorare e lamentarti. Aveva la nostra età quando è stato deportato. Parlando con lui, non avevamo la sensazione di parlare con una persona anziana. Grazie alla preparazione al concorso, abbiamo scoperto un sacco di cose. Per esempio che i bambini e gli adulti deportati non erano necessariamente solo ebrei, ma anche gitani o omosessuali.

Il concorso ha profondamente modificato il futuro di quella classe?

Cattivi allievi per la maggior parte insopportabili sono diventati super motivati. Siamo arrivati in prima con una fiducia enorme in noi stessi. Abbiamo imparato a lavorare e ad amare farlo.

Lei è la prova di questo, dal momento che a partire dall’anno seguente ha iniziato a scrivere una sceneggiatura! Come le è nata questa voglia di scrivere?

Dopo la riuscita del concorso, mi sono sentito in grado di fare molte cose. Con un amico ci siamo presentati a un casting. Ho conosciuto un agente e, in quell’occasione, ho scoperto che i film si girano a partire da una sceneggiatura. Non lo sapevo o non ci avevi mai pensato! Ho cominciato a presentarmi a delle audizioni e ne ho fallite alcune prima di essere scelto per un ruolo principale in LES PETITS PRINCES, con Eddy Mitchell. Allora mi sono detto: Ahmed, perché non scrivi il tuo film? Avevo notato che tutte le persone che vengono dalla periferia e sfondano si lanciano nella commedia. Un giovane della banlieue non è per forza un comico! Per me era importante scrivere qualcosa di serio. Come futuro attore, avevo voglia di film profondi, di polizieschi, di film che parlano di politica, di film che fanno riflettere! Inizialmente ho scritto la sceneggiatura soltanto per me, come una sfida. Più andavo avanti, più mi dicevo che sarebbe stato bello avere dei consigli da dei professionisti. Ero rimasto molto colpito da LA JOURNEE DE LA JUPE di Jean‐Paul Lilienfeld, con Isabelle Adjani, e così l’ho contattato. Lui ha accettato di leggere il mio copione e poi mi ha telefonato: «Senti Ahmed, non posso permetterti di presentare una sceneggiatura così». Quindi l’ho sviluppata e l’ho presentata a varie case di produzione. Ero giovane, avevo 17 anni e non avevo fatto mai niente nella vita. Quelli che mi ricontattavano, lo facevano per darmi risposte garbatamente negative. Dopo aver visto MA PREMIERE FOIS di Marie‐Castille Mention‐Schaar, un bel film romantico, ho cercato con ogni mezzo la sua e-mail. Mi ha risposto l’indomani stesso: «Senti Ahmed, sono a New York, mandami la tua sceneggiatura. Se mi interessa, accetterò di incontrarti». Durante il nostro prima incontro, Marie‐Castille mi ha fatto parlare di me per due ore e mi ha chiesto una serie di cose sulla storia che le avevo mandato. Si intitolava «La vera lotta» ed era la storia di un concorso di lettere all’ultimo anno del liceo Pasteur, con una professoressa di lettere figlia di immigrati. Alla fine Marie‐Castille mi ha detto: «Dimmi che cosa vuoi che faccia per te. Vuoi che produca il tuo film? Che ti aiuti a riscriverlo? Che lo diriga?». Ero estasiato che il mio sogno diventasse realtà. Le ho risposto di sì a tutto, ma senza veramente capire quelle domande. Non ci avevo pensato. Facevo fatica a credere che quello che mi stava succedendo fosse vero. È strano, non sentivo alcuna gioia, ero stordito. Poi mi sono detto: «Ahmed, non bruciarti le ali. Sei ancora molto giovane, hai il tempo di imparare. Non hai mai diretto un film. È troppo per te».

Come si è articolato il lavoro insieme a MarieCastille MentionSchaar?

Abbiamo formato un duetto. Abbiamo molto parlato. Marie‐Castille prendeva appunti. Mi faceva molte domande sui miei ricordi, sulle reazioni degli uni e degli altri o sulle reazioni ipotetiche. Siamo arrivati a stilare un elenco di personaggi. Alcuni erano un condensato di diversi allievi della mia classe. Al liceo Léon Blum, nessuno era al corrente del nostro progetto. Per me la scrittura della sceneggiatura e la preparazione delle riprese erano già una bella rivalsa rispetto a tutti i preconcetti dei professori e del preside verso la nostra classe, la peggiore dell’istituto che però aveva vinto il concorso. Sono orgoglioso di aver reso questo tributo ai miei compagni, al liceo, a Madame Anglès.

Come sono andate le riprese?

Riaffioravano in superficie molti ricordi. Non ero sempre molto serio. Recitavo il personaggio di me stesso, ma Marie‐Castille ha tenuto a renderlo diverso affinché dovessi anche interpretare delle cose. Quello che mi ha sorpreso è stato rivivere situazioni che avevo già vissuto. E quello che mi fa più piacere oggi è mostrare a mia madre questa classe di prima e che possa sentirsi fiera di essersi battuta perché mi iscrivessi al liceo Léon Blum. Ha dedicato tutta la sua vita ai figli. Io sono il primo di tutta la mia famiglia ad avere il diploma di maturità.

Quali sono stati i suoi rapporti con MarieCastille MentionSchaar e Ariane Ascaride?

Oggi considero Marie‐Castille come la mia seconda madre. Quanto ad Ariane Ascaride, mi sono messo a piangere quando se n’è andata. Durante tutto il periodo delle riprese ci siamo dimenticati che era un’attrice, vedevamo in lei solo la professoressa. Capitavano giorni in cui gli studenti erano insopportabili e Ariane, come un’insegnante, li obbligava a calmarsi. Nessuno osava andare allo scontro con lei.

C’è una scena in cui dice: «Io ho ragione e tu hai torto». Cosa ne pensa di questo tipo di argomentazione?

È il solito discorso. «No, non lo devi fare punto e basta». Lo dice quando un’allieva si è dimenticata di farsi autorizzare la tessera della mensa e si domanda come farà per mangiare. Anche a me sarà successo una cinquantina di volte! L’argomentazione autoritaria non è necessariamente valida. Era difficile con Madame Anglès. Ma le obbedivamo, sicuramente perché avevamo sentito fin dall’inizio che ci voleva bene.

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