Red zone – 22 miglia di fuoco: tante parole e moltissimi fatti

Il Peter Berg regista, ad eccezione dell’esordio Cose molto cattive e dell’opera terza Friday night lights, ha dimostrato di non badare troppo alle mezze misure, guardando più alla forma che ai contenuti e preferendo alle parole, di gran lunga, i fatti.

Film come Il tesoro dell’Amazzonia, The Kingdom, Hancock, Battleship, Lone Survivor, Deepwater e Boston – Caccia all’uomo, sono la cartina tornasole di un modus operandi che identifica il DNA di un cineasta che punta diritto al sodo. Il risultato di tale impostazione è un corpus audiovisivo nel quale la confezione e il coefficiente cinetico hanno la meglio sulla scrittura, sull’architettura drammaturgica, sulle possibili ed eventuali stratificazioni tematiche (al di là del solito discorso sui poteri occulti e sulla manovalanza costretta ad agire al limite della legalità), oltre che sul disegno e le one lines dei singoli personaggi ridotti al minimo indispensabile.

Insomma, nel cinema dell’attore, produttore e regista newyorkese la componente visiva e dinamica tende a monopolizzare la scena, con plot e personaggi che diventano, di fatto, gli agnelli da sacrificare sull’altare dell’entertainment senza se e senza ma.

Nella sua ultima fatica dietro la macchina da presa, dal titolo Red zone – 22 miglia di fuoco, Berg ci catapulta senza giubbetto antiproiettili e in media res al seguito di una squadra speciale chiamata a portare a termine l’ennesima missione letale e pericolosa, nella quale giocoforza bisogna sporcarsi (e non poco) le mani: proteggere un informatore a conoscenza di segreti che potrebbero sventare attacchi terroristici di portata mondiale. L’unità guidata da James Silva (Mark Wahlberg) e dalla sua luogotenente Alice Kerr (Lauren Cohan) deve scortare l’informatore per ventidue miglia in una corsa contro il tempo per portarlo fuori dal paese. Durante il viaggio, dovranno scontrarsi contro squadre d’assalto e nemici armati pronti a tutto; ad aiutarli il commando tattico, situato a migliaia di chilometri di distanza, guidato da un misterioso uomo, noto solo come l’Alfiere (John Malkovich).

Nella filmografia del cineasta statunitense Red zone – 22 miglia di fuoco non fa alcuna eccezione alla regola, se non quella di affiancare all’immancabile show balistico e dinamitardo (su tutte la scena dell’imboscata) un’autentica mitragliata dialogica sparata sul grande schermo ad un ritmo serrato e alla medesima velocità dei proiettili. Il tutto, per alimentare la veste spettacolare e di altissima qualità di uno spy-action-thriller che fa dell’esecuzione in apnea in assetto costante della messa in quadro il suo punto di forza, al contrario di una linea mistery che, pur mescolando continuamente le carte sul tavolo al fine di depistare, presta il fianco ad una certa prevedibilità nella progressione degli eventi.

Ma, se l’ingrediente giallo non fornisce il giusto apporto all’operazione, dall’altra parte la ricetta action viene impreziosita dall’innesto nella timeline di scene marziali che aumentano in maniera esponenziale il tasso adrenalinico, con corpi a corpi brutali e coreograficamente pregevoli resi possibili dalla presenza nel cast di Iko Uwais nei panni dell’informatore indonesiano (vedi il due contro uno nell’infermeria). Che, sia ben chiaro, non raggiungono però la potenza esplosiva e il coinvolgimento di quelli dei due capitoli di The raid.



Francesco Del Grosso