Riccardo D’Avino: di rabbia e di libertà

Un Ep di coscienza pulita. Un disco di rabbia gestita. Un suono di un rock che deriva da quel punk furente degli anni “di piombo”. Ma poi Riccardo D’Avino traduce tutto in rock melodico e pubblica “Presa d’Incoscienza”. Come dire: vi canto in faccia la mediocrità che siamo. Non si tira fuori dai giochi, nel video di lancio mette in scena anche il suo alter ego, le ombre, i difetti, i vizi, le bassezze di ognuno di noi. L’estetica è anche il complesso e non solo l’apparenza. Un disco sociale quello del cantautore torinese che non guarda in faccia a nessuno, che sputa nel piatto dove mangia senza merito. Un frase potente che però penso racchiuda il leitmotiv di questo disco. Bellezza è tutto…

Un EP: oggi cosa significa fare un EP?
Significa fermare su disco le prime impressioni di un lungo discorso che si ha da fare con la musica. Un EP è sempre un assaggio della propria produzione, un preludio verso un futuro e più corposo LP. Ma può già contenere una consistente porzione di pensiero, di stile dell’artista che lo pubblica.

Prendere “incoscienza”. Un po’ come rendersi conto di essere colpevoli. Sbaglio?
Beh sembra essere un processo utopico… “Proprio così. Rendersi conto di essere in fondo cattivi, ipocriti, opportunisti. Oppure anche di essere positivamente incoscienti, istintivi, impulsivi e proprio per questo vivi. Forse non è proprio utopico, ma sicuramente poco comune, in un’epoca dell’apparenza e delle mezze verità come questa.”

Un disco di rabbia. Secondo te è necessaria sfogarla in qualche modo utile per sensibilizzare il pubblico?
È sempre utile sfogare la propria rabbia in musica. Lo si può fare in tanti modi. Io in “Presa d’incoscienza” ho scelto di farlo nei confronti di me stesso, perchè qui mi rendo conto di essere io la fonte di tutti i mali. Anche questo è un modo di invitare l’ascoltatore a riflettere.

Un disco di altri tempi, di quando la canzone era sociale per tutti. Cosa ne pensi in merito? Oggi sembra tutto così autoreferenziale…
Non oserei definire il mio un disco propriamente “sociale”. È più un album a cavallo tra il sociale e l’autoreferenziale. Sociale perché le sue canzoni vogliono comunicare un disagio a chi ascolta. Autoreferenziale perché sto parlando di me stesso. Il fatto che comunque oggi tante canzoni siano incentrate su noi stessi è sicuramente conseguenza di una generazione delusa e un po’ abbandonata a sè stessa. Non è più tempo di protestare o di opporsi, perché questa generazione può ancora cullarsi sulle ricchezze accumulate dai genitori, sul benessere e sulla modernità, e anche per questo le manca la forza di reagire. Io a modo mio cerco invece di farlo, parlando però delle mie colpe e non di quelle di chi ho intorno.

L’estetica è qualcosa che chiediamo a tutti. Cosa ci dici in merito?
L’estetica è sicuramente importante nella musica, specialmente oggi. Ogni artista deve sempre cercare di creare e mantenere una propria immagine accattivante ed immediatamente riconoscibile. Che ci piaccia o no, è sicuramente un fattore che pesa sulla fruibilità di un progetto musicale, per quanto belle possano essere le canzoni.

Quanto è importante oggi l’estetica di un messaggio? Che sia più importante del messaggio stesso?
Credo che spesso sia così. Un titolo azzeccato, un bel gioco di parole o un linguaggio particolare, sono cose che possono farci soffermare subito su di una certa canzone e quindi sul suo messaggio. È invece più difficile oggi far passare il messaggio di un testo impegnato o di una composizione musicale strutturata, se non c’è a monte qualcosa che attiri l’attenzione dell’ascoltatore nell’immediato.

Nel video di “Tutto nel mio nome” c’è l’alter ego, l’ombra, il maligno di ognuno di noi. Bisogna combatterlo o accoglierlo secondo te?
Accoglierlo ed accettarlo per quello che è. Solo così un giorno ci si potrà far pace, forse.