Già intento ad accrescere col mélo introspettivo Le nostre battaglie gli inopinati stilemi connessi all’amara scoperta dell’alterità, riscontrabile nelle incombenze che esulano dall’ordinario come il passaggio dall’ingannevole nido domestico alla dura necessità per un marito abbandonato dalla consorte depressa di dedicare all’incolpevole prole lo stesso tempo riservato alla professione sulla falsariga dell’inobliabile Ted in Kramer contro Kramer, l’ambizioso regista e sceneggiatore belga Guillaume Senez cerca di alzare il tiro imprimendo all’ultima fatica Ritrovarsi a Tokyo, oltre al secco rifiuto del mero spettacolo consolatorio, alieno a ogni opera d’introspezione saldamente ancorata alla realtà scevra di fronzoli od orpelli vari, anche l’indubbio apporto della geografia emozionale.
L’interazione d’un immusonito cittadino proveniente dall’Occidente, tipo il tassista francese Jerome, con lo stato insulare dell’Estremo Oriente, dove sino a un anno fa la mancata adesione all’alacre Convenzione dell’Aja sulle questioni civili relative alla sottrazione internazionale di minori comportava la violazione dell’esercizio di visita al sangue del proprio sangue in seguito alla separazione dei genitori, trae subito partito sia dal deep focus, per veicolare l’attenzione degli spettatori ignari di determinate dinamiche di specie etnografica nei confronti di alcuni dettagli in apparenza stravaganti, a ben vedere carichi di senso, sia dai paesaggi riflessivi ed evocativi. Che riverberano l’altalena degli stati d’animo del volubile esule transalpino.

Dal relax nel bagno pubblico di Yoyogi-Hachiman, al centro altresì del toccante ed erudito apologo sul tran tran giornaliero Perfect days di Wim Wenders, ai soprassalti di stizza, per la podestà genitoriale sconfessata nell’impenetrabile terra del Sole nascente, sino ad arrivare ai momenti d’intima tenerezza con un’espansiva scimmietta grazie a cui Jerome vince nel consorzio intimo lo spettro dell’attanagliante solitudine. Fin qui la scrittura per immagini di Senez afferra l’accezione ampia ed esaustiva del titolo originale. Ovvero la “parte mancante”. Scandagliata altresì nel persuasivo film d’esordio Keeper sul versante del precario amore adolescenziale rigettato quando l’acerba ragazza rimane incinta. Nello svelare l’arcano concernente la suddetta parte mancante all’ombroso autista in giacca e cravatta, che in libreria condividendo la sete di sapere saziata dalle avide ed eclettiche letture sembra scordarsi dell’iniqua legge decisa a negargli ogni diritto di padre, emergono, viceversa, le velleità del mero stilista visivo. Che costringono il prosieguo della trama a tornare all’abc. L’ambìto coinvolgimento estetico ed emotivo, legato alla dinamica cromatica affidata alla pur duttile fotografia, stenta a convertire i valori figurativi, attinti per di più ai melò meditabondi fuori dalla portata dell’autore con le polveri bagnate, in saldi ragguagli poetici.

Lo sviluppo disuguale delle fasi di condivisione ed estroversione, con Jerome in automobile che canta a squarciagola insieme all’inquieta ma schietta sorella accompagnata da un affabile amico nipponico l’ennesima canzone intradiegetica nella loro lingua madre, e della fugace ma mesta egemonia dell’introversione, che ghermisce il coniuge forestiero estromesso dal Registro familiare giapponese, suda sette camice per inserire il quadro d’incomunicabilità, a corto dell’idonea compattezza strutturale ed espressiva, in un valido processo di attribuzione di significato. Le contingenti situazioni, che lo portano ad avvicinare la figlia dodicenne, cresciuta lontano dal babbo transalpino, le composite inflessioni pronunciate ad hoc da Jerome, mentre resta dapprincipio col piede in due staffe, il calore d’una trepidazione tornata a galla, alla stregua della ragazzina al termine delle nuotate in apnea in piscina, la radiografia esistenziale dell’uomo, stufo di subire abusi dall’insensibile sistema giuridico, prendono piede sullo sfondo di luoghi sulla carta carichi d’echi e controechi assai coinvolgenti. All’atto pratico invece la penuria di un’apposita profondità di campo pregiudica l’automatica elezione dei luoghi in questione ad attanti narrativi capaci sul serio di trascendere con la forza significante dell’illustrazione ambientale ed elegiaca i limiti dell’inchiesta sociologica. La giornata particolare di padre e figlia, all’insegna della mutua solidarietà con la gente del posto, fedele ai vincoli di suolo e al rito informale di condividere la gioia del convivio ad anni luce di distanza dalla miopia degli ordinamenti istituzionali, alza indubbiamente l’asticella.

Le battute conclusive, al contrario, pagano dazio al tallone d’Achille dell’involuto Senez. Che traligna nel ricatto morale delle scontatissime soap opere strappalacrime la cura dei dettagli in grado di assicurare al tormento umanissimo e romantico del papà afflitto la destrezza di rendere fragrante ed ergo immediato l’inafferrabile sottosuolo dei pensieri nascosti, degli indocili caratteri scesi in zona Cesarini a miti consigli, del sale della Vita. Nonostante l’impegno profuso dall’esperto Roman Duris, che ne Le nostre battaglie era riuscito ad aderire al personaggio del caporeparto avvezzo alla lotta sindacale costretto ad affrontare l’impervia sfida di crescere i figli senza l’infelice moglie coi nervi tesi alla stregua delle corde di violino, il profilo nervoso di Jerome risulta composto di elementi spesso troppo gigioneschi per eguagliare la finezza di tocco degli alfieri della sottorecitazione. Necessaria a garantire al governo degli spazi ora respingenti ora accoglienti l’anelito irrinunciabile d’una soffusa speranza. Alimentata dalla chimera dell’affetto redento. Ritrovarsi a Tokyo, all’opposto, appaga le aspettative di chi si annoda le budella dinanzi all’attitudine ad aggiungere sentimento al sentimento. Stramazzando perciò nel ridicolo involontario del vieto sentimentalismo. Anziché anteporre alle corde ritorte dei surplus zeppi d’ovvietà le corde sottese dell’aura contemplativa. Che non punta all’applauso culminante delle platee avverse ai dispendi di fosforo. Bensì alla compiuta percezione degli schemi di riferimento altrui. Tanto di quelli indegni. Quanto di quelli degni di rilievo lirico ed epidermico.
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