L’Imbalsamatore di Matteo Garrone

Oggi voglio parlarvi di un film un po’ atipico per me, perché non appartiene al genere horror, e nemmeno al thriller, ma si tratta di un noir, uno dei noir più ferocemente realistici dei nostri anni, nero come la pece e superbamente narrato, definito da Federico Frusciante “il più bel film italiano degli ultimi 20, ma forse anche 30, anni”. Sto parlando de L’Imbalsamatore, classe 2002, del regista Matteo Garrone. Si tratta del quarto lungometraggio del regista romano, che diverrà da questo momento uno dei nomi di spicco del Cinema Italiano, e verrà conosciuto per opere quali Gomorra del 2008, Il racconto dei racconti del 2015, Dogman del 2018 e la sua ultima fatica, Pinocchio, del 2019. E’ proprio con L’Imbalsamatore, presentato al 55° Festival di Cannes, che Garrone vince il suo primo David di Donatello per la miglior sceneggiatura, scritta a sei mani insieme a Massimo Gaudiosi ed Ugo Chiti. Premio che vincerà anche Ernesto Mahieux, come miglior attore non protagonista. Si ricordano anche altri premi vinti dal film, quali il Nastro d’Argento, Il Globo d’Oro ed il Ciak d’Oro, a sottolineare che con questo gioiello Garrone si consacra definitivamente nell’Olimpo del Cinema Nostrano ad appena 34 anni.

Il film si apre con una scena all’interno di un giardino zoologico di Napoli, dove un tassidermista affetto da nanismo, Peppino Profeta, fa la conoscenza di un bellissimo giovane che sembra molto interessato agli animali, Valerio, il quale lavora nella cucina di un ristorante ed è costretto a vivere in casa col fratello e la sua famiglia, coi quali la convivenza è tutt’altro che pacifica. Peppino chiederà a Valerio di diventare suo apprendista, promettendogli uno stipendio più alto, e ospitandolo addirittura a casa sua senza chiedergli nessun tipo di affitto. Valerio, ingenuamente, si fiderà subito di Peppino e lo seguirà fino a Cremona, ma non sa che dietro le attenzioni dell’uomo c’è tutt’altro che disinteresse. Dopo l’incontro con una giovane, Deborah, di cui Valerio si innamorerà, la situazione tra i tre diverrà insostenibile, e porterà a conseguenze fatali ed inevitabili.

La storia si basa su un vero fatto di cronaca, caratterizzato da mancanze affettive, rapporti morbosi, ricatti e violenze che finiscono in tragedia, conosciuto come il caso del Nano di Termini. Il tutto risale all’estate del 1986, quando a Roma (e non a Napoli, dove Garrone sposterà l’azione) un diciassettenne di nome Armando Lovaglio, nel cercare lavoro, si imbatte nella richiesta di uno studio di tassidermia che sta cercando un collaboratore. Si presenta così alla Igor Taxidermist, dove ad aprirgli la porta trova il titolare della bottega, Domenico Semeraro, originario di Ostuni, 40 anni, alto all’incirca 1 metro e 30. L’adolescenza di Semeraro non è stata facile a causa della sua patologia, è cresciuto nella carenza affettiva ed ha cercato di colmare questo vuoto circondandosi da ragazzi molto giovani. Lovaglio ovviamente viene subito assunto, ed oltre a ricevere un lauto stipendio Semeraro lo colma di regali, tra cui addirittura la moto che Armando desiderava da tanto tempo. Tra i due inizia un rapporto malato e morboso che includerà anche dei rapporti sessuali. Rapporti che però si interrompono due anni dopo, quando Armando si innamora della giovane Michela e la mette incinta. Da questo momento inizieranno i problemi tra i tre, che sfoceranno in un finale drammaticissimo di cui non vi racconto nulla, ovviamente, per non spoilerarvi il film. Infatti Garrone, sebbene cambi nomi, locations e piccoli dettagli, rimane sostanzialmente fedele alla storia originaria.

Nel ruolo del Nano viene scelto l’attore napoletano Ernesto Mahieux, alto 1 metro e 45, perfettamente calatosi nel personaggio di Peppino perché, racconta lui stesso, ha vissuto in gioventù i suoi stessi problemi, proprio a causa della sua bassa statura. Ernesto racconta che nella scena finale, nella quale emerge tutta la follia repressa di Peppino, si è sentito davvero se stesso, quando in vita ha vissuto momenti di sconforto tali da credere di aver perso tutto…pensare che inizialmente l’attore non voleva accettare la parte perché riteneva la sceneggiatura troppo violenta….fortuna che poi ci ha ripensato, in quanto è davvero adatto alla perfezione, tanto da offuscare con la sua presenza quella degli altri due comprimari, Valerio Foglia Manzillo e Elisabetta Rocchetti. Foglia Manzillo è un modello bellissimo di 1 metro e ottantotto, e Garrone ha il merito di farlo sembrare ancora più alto, tanto da apparire come un gigante accanto al piccolo Ernesto. Valerio debutta nel cinema proprio con questo film, e la sua inesperienza non è un punto debole, ma anzi, il regista racconta di averlo scelto appositamente neofita, perché voleva che risultasse spaesato, spontaneo, quasi perso all’ombra del personaggio di Peppino, che invece viene mostrato fin da subito come carismatico, grande oratore e perfetto affabulatore. L’ingenuità (anche reale) di Valerio cozzerà perfettamente con quella del suo partner, che in taluni momenti ne schiaccerà totalmente la personalità sotto la sua piccola mole. Garrone, proprio per questa sua scelta di avere un attore che fosse semplicemente se stesso sullo schermo, deciderà di lasciare a Valerio il suo nome anche nel film. Come terzo vertice del triangolo troviamo l’attrice romana Elisabetta Rocchetti, che era già un nome nel mondo del cinema italiano, avendo partecipato a pellicole quali MDC – Maschera di Cera di Sergio Stivaletti del 1997, Non ho Sonno di Dario Argento e L’Ultimo Bacio di Gabriele Muccino, entrambi del 2001. L’attrice reciterà ancora con Argento e Stivaletti nel 2004, nei film Il Cartaio e I Tre volti del Terrore, e, rimanendo nel nostro amato mondo dell’horror, la ritroveremo anche nel 2006 in Il Bosco Fuori di Gabriele Albanesi. La scelta dei tre attori protagonisti di questa lunga e drammatica ossessione si è dimostrata assolutamente vincente: tra loro venne a crearsi sul set una sinergia tale che Garrone più volte lasciò a loro il compito di improvvisare le scene, dando loro solo un canovaccio di come avrebbero dovuto iniziare e finire, cosa che porterà la recitazione ad essere incredibilmente naturale, tanto da farci scordare di essere davanti a un film.

Grazie a una regia tecnicamente perfetta, fatta di una serie infinita di movimenti della macchina da presa e da quadri assolutamente strepitosi,nei quali Garrone non si fa prendere la mano da virtuosismi o inutili forzature, coadiuvata dalla glaciale fotografia di Marco Onorato e dalla suadente colonna sonora della Banda Osiris, il regista trascina il pubblico all’interno di un mondo oscuro ed ipnotizzante, a tratti talmente opprimente che ci si scorda di respirare, come nella bellissima scena finale in cui si omaggia il classico del maestro del brivido Alfred Hitchcock, Psycho. E la citazione non è certo casuale, in quanto in entrambi i film si racconta di un’ossessione che porta i protagonisti alla follia, per il terrore di perdere ciò che invece desiderano: da una parte Norman Bates è ossessionato dalla figura della madre che non vuole che lui la lasci per qualche ragazza, dall’altra Peppino Profeta, ossessionato dalla bellezza di Valerio, che adora di un amore pulito e sembrerebbe anche platonico, a differenza del personaggio reale a cui è ispirato. Peppino è essenzialmente un povero martire, che ha dovuto lottare coi suoi problemi tutta la vita, e che vede nell’incontro con questo ragazzo bellissimo il riscatto ai suoi affanni. Il suo senso di adorazione è tale che, quando si accorgerà che Valerio non ha la minima inclinazione omosessuale, pur di tenerlo avvinto a sé e poter godere della sua bellezza anche solo visivamente, userà amiche e prostitute, alle quali si fingerà interessato, per creare situazioni di intimità e poter avere il suo oggetto del desiderio nello stesso letto, anche se all’interno di un’orgia. Ho trovato questo espediente davvero delicato, in mezzo a tanta brutalità, e non nascondo che ogni tanto Garrone riesce perfettamente a farci sentire pena per questo personaggio così sfortunato e disagiato. Anche se, certamente, il senso che più aleggia intorno alla figura dell’imbalsamatore, è quello di inquietudine, che i primi piani insistiti sul volto di Mahieux non fanno che acuire. Per rendere più vere e credibili le scene, permettendoci di sentircene parte, di viverle dall’interno, Garrone stesso si fa protagonista del suo film: buona parte delle riprese le ha infatti eseguite con la telecamera a spalla, seguendo gli attori passo passo, girando letteralmente insieme a loro, in mezzo a loro, insistendo sui volti e sulle espressioni più intime e spietate.

Teatro di quasi tutta la vicenda, se si escludono un paio di digressioni a Cremona, è Napoli. Ma la Napoli tratteggiata nel film niente ha a che vedere con la città partenopea solare, caciarona, allegra, della pizza margherita e del lungomare Caracciolo. Garrone sceglie di mostrarci una Napoli marginale, dimenticata, periferica e degradata, così come lo sono i suoi personaggi, dei reietti che vivono delle realtà subalterne e per questo non adatti ad essere inseriti tra le vie storiche della città. Il sole non manca, ma è un sole freddo, glaciale, come fosse il neon di un obitorio, che illumina i palazzoni semi fatiscenti, ed anche il mare e la spiaggia vengono sempre fotografati sotto una luce malata, che non li fa risplendere, ma li fa emergere in tutto il loro squallore. Scordatevi “Vide ‘o mare quant’è bello, spira tanto sentimento”, perché qui il mare l’unico sentimento che ispira è il disagio nei rapporti che contraddistinguono i nostri personaggi. Peraltro non tutte le locations indicate come napoletane nel film sono realmente a Napoli: il campo da golf dove avviene l’epico litigio tra Peppino e Deborah, che si tolgono le rispettive maschere, incrinando così il delicato equilibrio tra i tre, è in realtà a Castel Volturno, provincia di Caserta. Lo stesso discorso vale per Cremona, fotografata attraverso una nebbia spettrale che non ci fa mai capire se siamo di mattina o di sera, non meritevole di essere mostrata nel suo elegante centro storico, ma solo nei suburbi squallidi dove ben si inserisce la fine di questa tragedia.

Ilaria Monfardini