“Prova Zero” è un disco fluttuante di una bellezza strana, a tratti sintetica, a tratti figlia di laboratorio… è solo dalla voce di Roberto Sarno che poi capiamo come sia una bellezza umana, sentita, acustica… un disco di pelle sicuramente, un disco di istinti misurati con poca irruenza e con moltissima pace. Ecco: un disco di pace insomma. “Prova Zero” è forse il momento più “violento” di Roberto Sarno, quello in cui si fa di conto personale sulla proprio individualità artistica. Ha deciso di arrangiare nuovamente brani della sua carriera e di riproporli con questo suono piccolo, silenzioso, fluttuante, in lo-fi come nel video ufficiale. Lui, assieme a Marco Mafucci oltre che alla partecipazione di Alberto Nepi su qualche linea di pianoforte. “Prova Zero” sembra una struttura di ferro saldata a mano da un artigiano, sembra che ci sia della timidezza e del rispetto per la forma e per i contenuti. E se da una parte avrei voluto una maggiore dinamica del sax di “Io sono qui” per innamorarmi ancora, è anche vero che trovo affascinante questo miscuglio di antico blues al tramonto con i retaggi digitali delle nuove tecnologie che trovo in “Cadere sola”. Questo è un disco di periferia urbana, un lavoro di poca luce… di sicuro siamo lontani dai centri commerciali.
Noi parliamo di estetica e non solo di quella bella a vedersi. Parliamo di bellezza spirituale. Per te cos’è la bellezza?
Personalmente avvicino il concetto più profondo di bellezza all’idea della felicità. L’astrazione del bello eleva il genere umano, ricercare le cose belle ci distingue. Si discute spesso di quanto il bello sia oggettivo e talvolta si vacilla di fronte alle così tante diversità che si trovano negli interessi delle persone. Tuttavia un centro oggettivo di bellezza esiste e tocca tutti. Per un artista è una vera sfida stare in quel centro, il riconoscimento degli altri c’è solo se si è lì dentro. La bellezza procura piacere, nell’arte, nelle persone, nel mondo circostante. Apprezzare e promuovere il bello dovrebbe essere un impegno di tutti.
E quanto l’estetica e quel certo modo di apparire concorre alla completezza di una canzone?
Dal mio punto di vista l’estetica di una canzone è la veste sonora che gli si dà. L’essenza è l’insieme dell’armonia, della melodia e delle parole, ogni risvolto sonoro può cambiarne l’estetica, ma non l’essenza. La sonorità quindi è contingente e si adatta alla storia, non può stravolgere il contenuto. Credo che l’estetica che si avvicini di più al bello assoluto sia quella meno contaminata dalle mode, quella che rispecchia il carattere più personale dell’artista nella sua forma specifica.
Ma insistendo su questo tema, trovo che questi brani, in questa nuove veste, sembrano eludere e fuggire dal concetto estetico ed effimero di bellezza… sbaglio forse?
In realtà è proprio perché ritengo che la bellezza non sia effimera che sono andato a ricercare un’estetica migliore, una veste più confacente per avvicinarmi al concetto di bellezza illimitata nel tempo. Questa è una prerogativa che ha origine dalla scoperta tecnologica di poter registrare la musica; prima i musicisti scrivevano spartiti per fissare le loro opere e lasciavano indicazioni per definire quale dovesse essere la loro veste. Oggi, per quanto variabile, i compositori hanno la straordinaria possibilità di lasciare il loro prodotto “finito” e attraverso le molteplici tecnologie si ingegnano per dare la loro personalissima impronta.
Accanto a suoni come il sax (per fare un esempio) si finisce per caratterizzare fortemente un disco intero. Come hai scelto questa direzione? Perché proprio quei determinati contributi?
Avendo a disposizione illimitate librerie musicali digitali o la possibilità di coinvolgere strumentisti di vario genere, ogni suono non è mai lì per caso. Posso usare un fruscio esasperandolo o un’armonica a bocca distorcendola, ogni idea deve contribuire a definire la veste scelta per la canzone. Anche Paolo Alberta, che è un grande professionista con il quale collaboro da tempo, in fase di mix contribuisce molto a caratterizzare il suono che cerco.
Roberto Sarno in questa nuova direzione, più cantautorale, più personale, più solitaria… è più se stesso?
Indubbiamente sì! Per quanto ami collaborare con musicisti diversi per i molteplici contributi che possono offrire, avere individuato un mood di questo tipo mi fa sentire molto più a mio agio. Con Marco Mafucci siamo amici da sempre e la sua collaborazione talvolta quasi si traduce in un’estensione amplificata del mio pensiero. Lui riesce a cogliere i miei spunti e svilupparli. Altre volte dal vivo esco da solo con la mia chitarra, ma conservo lo stesso approccio, sono soltanto un po’ più asciutto.
Ed essere se stessi sempre è un equilibrio che spesso è controproducente all’ispirazione… qualcuno dice che dalla sofferenza si scrivono canzoni. Tu come la vedi?
Credo che siano le forti emozioni e soprattutto la capacità di coglierle come tali che siano di stimolo alla scrittura. Non è solo la sofferenza, ma anche la gioia e la consapevolezza. L’equilibrio di essere me stesso tra tutte le cose della vita (famiglia, lavoro, arte…) è uno stato dimensionale che ho ricercato per molto tempo e solo relativamente recentemente sono riuscito a trovare.
È uno stato molto gratificante e appagante, anche se un po’ sofferto per la carenza di spazio temporale da dedicare alle cose.
E parlando di bellezza personale, in questo disco hai omaggiato Motta con “Abbiamo vinto un’altra guerra”. Un omaggio al tempo presente… un omaggio anche al tuo concetto di canzone?
Un omaggio a un autore che considero in contrapposizione all’ondata laziale di quest’ultimo periodo e che a mio giudizio è un po’ sovrastimata.
Una canzone che ho sentito vicina per il testo e che mi ha stimolato dal punto di vista stilistico. Volevo che la mia interpretazione rimanesse fedele al contenuto, ma che si vestisse delle mie più personali sonorità che ho abbracciato in “Prova Zero”.
Lascia un commento
Devi essere connesso per inviare un commento.