Roma: un Amarcord in salsa messicana

Presentato in concorso alla settantacinquesima edizione della Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia, Roma è l’ultima fatica del cineasta messicano Alfonso Cuaron, rivelatasi una vera e propria sorpresa all’interno della storica manifestazione lidense.

Abbandonato per il momento il suo consueto stile che tende parecchio a strizzare l’occhio ai canoni hollywoodiani, Cuaron ha dato vita ad un’opera intensa e personale, una sorta di Amarcord che ci mostra il Messico – e, nello specifico, la sua capitale, Città del Messico – mediante la storia di una numerosa famiglia altoborghese (osservata attraverso gli occhi della giovane domestica Cleo), la quale, di pari passo ai numerosi disordini che affliggono il paese e a calamità naturali di ogni genere, si disgrega lentamente e inesorabilmente, malgrado le buone intenzioni di ogni suo membro.

Sono intensi primi piani, insieme a sapienti e curatissime carrellate e a un raffinato bianco e nero, a raccontarci la storia messa in scena. I dialoghi sono volutamente ridotti all’essenziale (fatta eccezione, ovviamente, per i vivaci bambini facenti parte della famiglia), le immagini (in particolare riguardanti la casa, trattata alla stregua di un vero e proprio personaggio) fanno da padrone assolute. Ciò a cui ci troviamo davanti è cinema allo stato puro, in cui a un realismo poetico – direttamente dalla scuola francese – si affianca un realismo magico, cavallo di battaglia di tutta la produzione artistica sudamericana.

Un’opera, questa, dolorosa e dolente, dove, tuttavia, lo sguardo del regista non manca mai di essere nostalgico e teneramente affettuoso. Un lavoro che è insperatamente riuscito a convincere anche i più accaniti detrattori del celebre cineasta messicano e che si è rivelata, di diritto, il suo lavoro più importante e sentito. Imponente, ma non ambizioso, Roma è, al momento, uno dei più interessanti prodotti in corsa per il tanto ambito Leone d’Oro. Sarà presto per dirlo? Ai posteri l’ardua sentenza.

 

 

Marina Pavido