Autore con la “a” maiuscola, abituato ad appaiare la crudezza oggettiva dello scandaglio psicologico spesso in seno a famiglie disfunzionali, snudando le corazze dietro cui s’insinua lo scoglio d’attanaglianti debolezze, e l’opportuno controcampo costituito dal probo sostegno poetico connesso alla complicità dei vincoli di sangue, che come si suol dire si mastica ma non si sputa, l’arguto ed esperto regista inglese Mike Leigh paga dazio in Scomode verità all’impasse di ripetere, stringi stringi, la medesima solfa o riesce ad anteporre alla noia di piombo della minestra riscaldata lo spunto d’una variazione degna d’interesse sul tema del consorzio domestico in subbuglio?

Nell’incipit prende immediatamente piede l’assoluto brio dell’eclettica attrice di colore Marianne Jean-Baptiste. Estremamente misurata quasi trent’anni or sono nel ruolo dell’orgogliosa Hortense Cumberbatch a caccia della sua madre biologica in Segreti e bugie. Sorretta dal solerte guru Mike Leigh dietro la macchina da presa. Spinta adesso ai limiti del radicalismo mimetico nei panni nell’inacidita ed esplosiva casalinga Patsy.

Le punture di spillo riservate subito all’apatico consorte Curtley, un idraulico con pochi grilli per la testa, nonché all’introverso figlio Moses, incapace di uscire dalla prigionia dell’alienazione inasprita dal sovrappeso, e indirizzate in seguito anche nei riguardi dei perfetti sconosciuti, che le capitano a tiro nel tran tran giornaliero, catalizzano l’attenzione del pubblico. Quasi la vampirizzano. Strappando franche risate. Finanche scomposte per il gioco fisionomico stravolto in una maschera d’indignazione continua e per le acuminate battute di spirito perennemente in canna. L’altra faccia della medaglia affidata alla descrizione sommessa ed evocativa della quotidianità affrontata con ben altro contegno dalla sorella Chantelle, nelle vesti di scrupolosa parrucchiera brava a instaurare rapporti complici con le varie clienti bisognose di svuotare il sacco sui conflitti sentimentali da telenovela, e nel consorzio intimo, insieme alle due allegre fanciulle frutto dell’ennesima unione inadatta a resistere al tempo ma prodighe di sincere manifestazioni d’affetto nei confronti dell’affabile mamma, risulta molto meno magnetica. Al pari delle sequenze degli antidiluviani film comici autoctoni con Totò protagonista, colmi sovente di scollature sul versante stilistico ed espressivo, quando il Principe della risata non compare in scena. Eppure l’opera di giustapposizione tra intesa e dissapore appare debitamente supportata dall’apprezzabile cura dei particolari, dall’attento tratteggio di personalità diametralmente opposte, dispiegate palmo a palmo secondo copione, dall’eterna contraddizione fra essere ed esistere, dall’illustrazione ad hoc tanto del taedium vitae quanto dell’amor vitae.

La profonda insofferenza, frammista agli scatti d’ira dell’intollerante Patsy, che ridicolizza chiunque abbozzi il diritto di replica, dalla gente in cerca d’un parcheggio per l’automobile a quella in fila al supermercato, dalle commesse alle dentiste, strette d’assedio dalla tempesta logorroica piovuta tra capo e collo, sciorina un’intensità maggiore in confronto alle convenzionalità d’un focolare avvezzo all’angelica concordia. Mentre la costruzione narrativa si sforza comunque di conferire lo stesso rilievo a entrambe le circostanze agli antipodi, grazie altresì all’abile montaggio e ad alcuni segreti del mestiere di adeo della vita degli affetti attinti a due vecchie volpi della levatura dei compianti Robert Altman ed Ettore Scola, il sottotesto di Scomode verità scalpita. Mandando via via a carte quarantotto gli stilemi dell’affresco corale, la pigrizia delle idee attinte all’altrui arguzia, la fragranza delle trovate, se non originali, comunque riuscite, il cortocircuito quasi a sfondo panteistico d’un’estatica volpe intrufolatasi nel giardino di casa, da scacciare quindi in malo modo, l’attenzione ai dettagli riposta nell’interazione tra habitat compositi ed esseri umani che si arrabattano, da Hackney a Finsbury Park, con la primogenita di Chantelle decisa a sfondare nel trend dei profumi nel quartiere dei nababbi nonostante le stroncature digerite obtorto collo. L’elaborazione del lutto per la recente scomparsa dell’inobliabile figura materna, l’incursione nel cimitero per la Festa appunto della Mamma, la tenace invettiva intenta a capovolgere persino in un luogo di raccoglimento l’egemonia dello spirito sulla materia scalzata dall’aura meditabonda, dopo un programmatico faccia a faccia all’insegna della rediviva sorellanza, l’abitudine a ridere tra le lacrime, sull’esempio del cult per eccellenza sul versante della spettacolarizzazione delle tribolazioni intime Voglia di tenerezza, aggiungono parecchia carne al fuoco. Specialmente quella che cova sotto la cenere.

Tradendo diversi debiti, celati nei consueti plagi in filigrana camuffati al limite da omaggi, nei riguardi del riuscitissimo dramedy Qualcosa è cambiato. Riletto alla bell’e meglio dall’involuto Leigh. Convinto al contrario di convertire la presa immediata dell’affresco malincomico nello spessore intellettuale dell’apologo spiazzante sul sangue che non si sputa. La performance di Marianne Jean-Baptiste nel privilegiare in zona Cesarini i silenzi eloquenti, al termine degli indefessi strepiti precedenti, merita una lode incondizionata. Tuttavia la psicotecnica recitativa resta uno show di secondo rango rispetto al carattere d’ingegno creativo della regìa. Che scava nel volto dell’immutolito Moses, lo inquadra di profilo in un’ovvia posa di rassegnata mestizia, col cibo però costantemente a portata di mano, l’accompagna nelle battute conclusive in una confortante palingenesi, sebbene pretestuosa nel trapasso dall’unhappy end all’happy end, gomito a gomito con l’ipotetica dolce metà. Incontrata per gentile concessione dell’idonea geografia emozionale, coi due estranei che si avvicinano ricavando linfa dalle chicche del cinema muto sul ciglio dell’università della strada, e dell’inesausta dea bendata. La lacrima che riga il volto dell’imbelle Curtley, sconfitto dall’impotente pietà ancor prima che dal colpo della strega dovuto alla pesante vasca portata per le scale col collega prodigo d’inutili seppur simpatici aneddoti da esibire step by step per tirare su il morale all’accigliato pater familias d’oltremanica sprovvisto sia dell’aleatorio ed emblematico scettro sia della memoria degli antenati africani, devia la chiusura del cerchio dall’appropriata antiretorica alla vieta enfasi di maniera. Trattenuta, mediante l’angolo visuale del rapporto di causa ed effetto nell’ambito formale, dall’apparente lavoro di sottrazione. Che sembra preservare Scomode verità dallo spreco di commozione. Chiamata invece definitivamente in causa dalla replica melensa del didascalico contenuto umano alla mina vagante dell’insoddisfatta donna di mezza età. Costretta ad arrendersi all’evidenza. Di fronte al passaggio dallo spassoso sarcasmo iniziale all’infecondo esistenzialismo finale. Che lascia con l’amaro in bocca il pubblico sedotto lì per lì dal fiume in piena del cinismo bonario. Assai caro ad Alberto Sordi.


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