Scompartimento n. 6 – In viaggio con il destino: le riletture beffarde e tenere di Juho Kuosmanen

Al regista finlandese Juho Kuosmanen, in odore di Oscar con Scompartimento n. 6 – In viaggio con il destino, piacciono le riletture ironiche. Costituiscono il motore della sua poetica. Ancor prima che dell’applaudita cifra stilistica.

Il trapasso di tono, rigore, crudezza ed emozione dallo stile classico e convenzionale all’eccentricità postmoderna, che fa rima con originalità, aveva impregnato, insieme all’assunto narrativo, pure l’indicativa scrittura per immagini dell’insolito film sportivo La vera storia di Olli Mäki. In cui l’attento Kousmanen – divertendosi, da cinefilo, consapevole dell’efficacia del segno d’ammicco dei richiami citazionistici, sia pure riletti in chiave opposta rispetto ai modelli originari (o forse proprio per quello), ed emozionandosi, in quanto essere umano sensibile a ogni aspetto dell’esistenza che esula dall’ordinario ed ergo non paga dazio alla noia di piombo – parte da Toro scatenato di Martin Scorsese.

Per poi prendere distanze siderali dall’effigie dell’inobliabile Robert De Niro alias Jack La Motta. Ovvero il pugile truce, nervoso, insicuro, fiero di non andare mai al tappeto. Con l’indifferenza ostentata dinanzi al pugno sferratogli dal rivale storico. Esibito da Scorsese in soggettiva. Affinché il pubblico con lo slow motion s’identificasse nell’incassatore. Punito al rallentatore. Dal movimento ghermito dalla macchina da presa col quale Jack sconta la colpa di averle suonate di santa ragione (si fa per dire) al sangue del suo sangue. Il fratello. Joey. L’ex manager. Accusato d’intendersela con la cognata. A Kuosmanen le donne che amano l’odore della palestra zampillato dal corpo impratichito dei combattenti, destinati a diventare degli scimmioni sovrappeso, svilendo il fisico, strumento del mestiere della Noble Arte, non interessano. Al pari delle doti del buon incassatore, dei traumi, di ciò che succede sul ring nel tempo reale. E in quello dilatato. Ne La vera storia di Olli Mäki il protagonista va giù in un amen. Per Kuosmanen il buongiorno che si vede del mattino appartiene – per merito dell’utilizzo del medesimo bianco e nero scelto da Scorsese, identificabile quindi nella forma – al messaggio da mandare agli spettatori. Per mezzo dell’immagine di un uomo bassino. Mite. Alieno alla violenza. Vicino al territorio, in Finlandia, dov’è nato. Alla scoperta dell’alterità. In America. Nel Nuovo Mondo. Quindi la geografia emozionale cementa in Kuosmanen – nel cervello, la materia grigia profusa allo scopo di tener desta l’attenzione d’un pubblico vasto, e nel cuore, snudato schiettamente, sulla scorta dell’autentica sensibilità artistica – il valore terapeutico dell’umorismo. Con la rilettura originale che funge da lievito poetico e antiretorico. In Scompartimento n. 6 – In viaggio con il destino l’alchimia, ricondotta all’egemonia dei contenuti sulla forma, senza cadere nell’accidia delle idee prese in prestito per attingere al consenso di critica, antepone ancora una volta il carattere d’ingegno creativo abbinato alla rilettura personale dei classici alla mera convenzione? O ne replica i vezzi mandando a effetto solo qualche mera variante? Nell’adorata Finlandia l’omonimo libro di Rosa Liksom è un best seller.

L’adattamento sul grande schermo d’un best seller campione d’incassi resta un espediente commerciale per convertire i lettori in spettatori. Col passaggio dalla pagina scritta alla visione in sala. O a casa. Considerando l’imperante Mala tempora currunt attuale per il mercato primario di sbocco della fabbrica dei sogni. Comunque sia il trait d’union di Scompartimento n. 6 – In viaggio con il destino con La vera storia di Olli Mäki, assai agevole da attribuire all’ironia, è il sigillo d’autore? O le nozze tra asperità ed emozione, nonché tra alchimia e ironia – percepibile nelle corde di Kuosmanen a prescindere dall’ascendente esercitato in maniera implicita o esplicita dai numi tutelari – concedano qualche banalità? La giuria del Festival di Cannes ha optato per il timbro d’autore, accordandogli il premio come miglior regista. Ed esistono buone ragioni per credere che Scompartimento n. 6 – In viaggio con il destino permetterà all’autore di vincere anche l’ambìta statuetta come miglior regista. In virtù del richiamo, nel caso preso in esame, a Titanic di James Cameron. Si tratta inconfutabilmente di un richiamo esplicito. La vicenda della studentessa finlandese di archeologia costretta a condividere lo stesso scompartimento, l’ormai magico numero sei, col minatore rozzo, beone, incolto, troglodita tipo, guarda caso, Jack La Motta (ecco un altro richiamo tanto per gradire) che diventa romantico né più né meno di Leonardo DiCaprio in Titanic (ma in fondo pure di più a pensarci bene) coglie senz’alcun dubbio nel segno. Ma lo fa sulla scorta dei capolavori, girati con quattro soldi e una miniera infinita d’idee, che mettono i brividi, riflettono i modi d’agire e di reagire alle difficoltà, agli imprevisti, dei personaggi col filtro del territorio eletto a location, e non avvertano l’impasse del cerchiobottismo di chi è stretto tra l’incudine della smania di raggiungere la vetta dell’autonomia autoriale e il martello del plagio camuffato ora da omaggio ora applicato per riuscire ad accrescere l’appeal dei riempitivi aggiunti? O, stringi stringi, ripete sempre la stessa solfa?

È chiaro che con La vera storia di Olli Mäki, anziché all’ennesima parabola sull’atleta in lotta coi demoni privati, ha voluto dare la precedenza ai migliori angeli dell’indole umana cari ad Abramo Lincoln. Che albergano nel cuore, al riparo dal sangue che schizza in faccia agli spettatori a bordo ring, del boxeur finlandese in trasferta. Ed è ancora il romanticismo ad animare il copione. Dando il benservito ai copia e incolla. Le interpolazioni predisposte in fase di sceneggiatura – non originale – rispetto al romanzo, ambientato negli anni Ottanta, vertono sulla necessità di semplificarsi la vita. Il cambio di decade va a fagiolo con Titanic. Girato nel 1997. E uscito in tutto il mondo l’anno dopo. Il cambio della tratta in treno – dalla transiberiana che arriva in Mongolia a quella con Murmansk, nell’estremo nord della Russia, in veste d’ultima stazione e di paradossale ed empatica punta occidentale dell’oriente, a un tiro di schioppo dalla foce del fiume Kola, dove si trovano i segni scavati nella roccia che la studentessa avrebbe voluto scoprire tête-à-tête con la dolce metà (tanto insensibile invece da darle buca a poche ore dalla partenza) – calza come un guanto al racconto. Escogitato ex ante. Buttando giù lo script a sei mani. Insieme ad Andris Feldmanis e Livia Ulman. Abbastanza scaltri da capire che Jack Dawson più simile a Jack La Motta che al principe azzurro DiCaprio era una pensata coi fiocchi. In itinere la tenuta stilistica motu proprio del pluripremiato Juho Kuosmanen (e, repetita iuvant, non è finita sicuramente qui) funziona. La trama non soffre d’incongruenze: va come una locomotiva. Come il treno. Col vagone letto condiviso dapprincipio di malavoglia. In seguito adorato sull’onda delle frecce di Cupido. Scoccate grazie al gioco degli equivoci, al problema della lingua, al bisogno di tradurre in russo le parole finlandesi che rompono il ghiaccio. Per prendere in giro lo strambo Romeo. Ljoha. Intento a compensare la bassa densità lessicale con gli eloquenti silenzi. Con gli sguardi che, si sa, comunicano più delle parole. Lo spettacolo di primo piano è però quello della recitazione.

Kuosmanen è preciso nel cogliere in piano-sequenza la destrezza mimica di Jurij Borisov (Ljoha). Che sciorina un lavoro su se stesso e sul personaggio migliore di Leonardo DiCaprio. Cameron, viceversa, ha una marcia in più nel servirsi del divo alla stregua d’una pedina, per conferire alla nota intima e ai coefficienti spettacolari il connubio ideale, rispetto a Kuosmanen sul versante autoriale. Che rappresenta uno spettacolo di secondo piano in confronto alla psicotecnica della recitazione. L’incontro, lo scontro, il confronto, le inquadrature metonimiche, il taglio dello spazio in interno, sul treno, l’effigie della terza classe, appaiano funzionali. Non geniali. Le fermate, gli esterni con i luoghi invasi dalla nebbia, dalla neve, dalle correzioni fuoco, con i contorni sfocati, immaginati, la cabina telefonica, la parentesi del bivacco con una vecchietta amabile perché imperfetta, umanissima, persuadono maggiormente. I petroglifi, le incisioni rupestri che Laura e Ljoha scoprono in leggerezza lungo il fiume Kola nelle battute conclusive, danno l’acqua della vita alla fase di location scouting dei luoghi da convertire ad attanti narrativi ed evocativi. La regia governa i vari fattori espressivi. Ma la marcia in più, se non l’autorialità, attiene alla recitazione. Lo spettacolo di secondo piano della speculare strumentalizzazione del richiamo a Titanic, riletto rimandando sotto banco ad Amici miei di Mario Monicelli, Qualcosa è cambiato di James L. Brooks, agli apologhi proletari di Ken Loach, con Toro scatenato nelle vesti d’indispensabile mastice, tradisce un calo d’estro. Compensato dalla prontezza di scongiurare il rischio di cadere nello stucchevole sensibilismo e nel vano poeticismo con l’ironia. Scompartimento n. 6 – In viaggio con il destino raggiunge in tal modo il traguardo dell’intelligenza. Chapeau. Ma la geografia emozionale, la schietta vena malicomica, la dimensione romantica, la poesia e la sensibilità sprigionate con La vera storia di Olli Mäk erano davvero un’altra camminata. Un altro pianeta. Quello dell’anima. Degli autori che non hanno bisogno di Oscar ed espedienti vari per esprimere al meglio il loro mondo interiore. Ad Maiora.

 

 

Massimiliano Serriello