Se la strada potesse parlare: il nuovo film del premio Oscar alla regia Barry Jenkins

Torna dietro la macchina da presa il regista premio Oscar Barry Jenkins, che nel 2017 con il suo Moonlight si era portato a casa ben tre statuette (miglior film, miglior sceneggiatura non originale e miglior attore non protagonista a Mahershala Ali).

Il suo nuovo lavoro, Se la strada potesse parlare, si ripromette di fare incetta di altrettanti premi, essendo già entrato nelle grazie di critica e pubblico e avendo già vinto numerosi riconoscimenti nei festival di tutto il mondo – compreso un Golden Globe a Regina King come miglior attrice non protagonista – in attesa della serata degli Academy 2019.

Come tutti i film di Jenkins, anche Se la strada potesse parlare tratta della delicatissima tematica razziale e sociale dei neri d’America. Questa volta, però, la sceneggiatura, firmata dallo stesso regista, trae spunto dal libro omonimo di James Baldwin (1974), figura di spicco nella letteratura statunitense moderna per il modo diretto ed esplicito di trattare certi tabù.

Il film di Jenkins cerca di rimanere fedele al romanzo, optando quindi per una narrazione semplice e senza fronzoli, quando anche piuttosto lenta. Un espediente, quello della lentezza, che si arriva a comprendere durante lo svolgimento della storia: la sospensione del tempo e il procedere a rilento di talune scene permettono, anzi, costringono lo spettatore ad assorbire bene ciò che sta guardando, ad inghiottire ogni boccone amaro che gli si para davanti in questa storia di ingiustizie.

Harlem, Manhattan, primi anni Settanta. Tish (Kiki Layne) e Fonny (Stephan James) sono due ragazzi di colore molto giovani e molto innamorati. Si conoscono da una vita e, nonostante le angherie di una società che ancora non li considera “del tutto” esseri umani (come i proprietari di immobili che si rifiutano di affittare loro un appartamento), fanno fronte alle difficoltà con l’onesto lavoro e il sostegno reciproco.

Un giorno, però, Fonny viene accusato di aver violentato una portoricana in un quartiere non solo molto distante dal suo, ma in un momento in cui lui era in compagnia della fidanzata e dell’amico Daniel (Brian Tyree Henry). Mentre Fonny è sbattuto in prigione in attesa di un processo che viene continuamente rinviato, tocca a Tish, che nel frattempo ha scoperto di essere incinta, a sua madre Sharon (Regina King) e all’avvocato Hayward (Finn Wittrock) cercare di trovare il modo di scagionarlo. Ma la testimonianza dell’agente di polizia Bell (Ed Skrein) costituirà la vera condanna di Fonny.

Se la strada potesse parlare è un film incredibilmente diretto. Non c’è patetismo, non strappa lacrime. Generare pietà non è quello che vuole. Quello che cerca è giustizia. La giustizia che è stata per secoli negata a milioni di persone solo a causa di un concetto di diversità malato e distorto. Anzi, nonostante le disgrazie alle quali di volta in volta assistiamo, si scorge un latente ottimismo che traspare, per esempio, nei forti legami umani che esistono tra i personaggi (quello tra i due innamorati protagonisti, tra Tish e sua madre, ma anche con Dio e la fede).

La storia si dimentica in fretta del motivo per cui Fonny è stato messo in carcere. Il crimine, o supposto tale, non è l’argomento su cui ci si concentra. Il fulcro centrale sono le dinamiche umane, spiegate in maniera chiara e diretta (si veda il flashback di Tish sul suo lavoro in profumeria e le interazioni con i clienti). Il film pone l’accento sulle varie minoranze etniche, non solo quelle afroamericane ma anche di origini sudamericane, che di certo non se la passa(va)no meglio. E il finale aperto, privo di una vera spiegazione, affida totalmente allo spettatore la capacità di interpretare quanto visto e, probabilmente, di reagire in maniera meno passiva rispetto agli inermi protagonisti.

Agli inizi degli anni Settanta il quartiere di Harlem, a New York, è parte di quei “ghetti” neri che ancora rendono ben visibile la demarcazione tra la popolazione di colore e quella di pelle bianca. Come Jackson in Mississipi o Beale Street a New Orleans, questi quartieri sono stati l’eredità di persone di colore che non venivano accettate dalla società in virtù di una diversità assolutamente implausibile. Sono state strade rumorose, dove è nato il jazz, quello vero, quello assordante. E, come spiega il film nella didascalia iniziale, sta allo spettatore  riuscire a discernere il vero significato delle cose in mezzo al trambusto delle percussioni degli strumenti musicali. 

 

 

Giulia Anastasi