Giunto per ultimo nelle nostre sale, a causa della scarsa attenzione dei distributori nei confronti dell’ordine cronologico ed espressivo degli alacri filoni elitari, Sex è il primo capitolo della trilogia impiantata dall’ambizioso regista norvegese Dag Johan Haugerud sull’esplorazione in chiave identitaria ed empatica dei rapporti umani.

Che traggono partito, per non pagare dazio alle convenzioni narrative lontane anni luce dalla sicurezza di taglio e dal fulgido estro degli aedi della Settima arte, tanto dal tono visionario ad appannaggio dei film di stampo romantico e fantastico, avversi dunque alla crudezza oggettiva imposta spesso dagli alti e i bassi dell’esistenza giorno per giorno, quanto dall’emblematico dato reale.

Imprescindibile ai fini dell’analisi degli stati d’animo, dinanzi al richiamo dei sensi, ai sogni, già tirati in ballo con Sex ma scandagliati appieno in, nomen omen, Dreams, e alla vita degli affetti. Frammista, insieme alla vertigine dei congressi carnali occasionali e all’ascendente esercitato dalla gentilezza d’approccio sui criteri relazionali, al valore aggiunto della geografia emozionale. È infatti attraverso l’interazione, talvolta in filigrana, in altri frangenti esplicita, tra habitat ed esseri umani che Dag Johan Haugerud cerca di legittimare l’investitura ad asso della macchina da presa razionalizzando l’assurdo. Conciliando cioè l’inconciliabile: la connotazione romantica, ai limiti dell’astrazione dell’apologo sulla salvaguardia dell’aspetto identitario nell’alfabetismo sentimentale di coppia, e la connotazione, per cosi dire, illuministica. Nell’ultimo capitolo rappresentato da Love l’operazione mostra la corda. Mentre nel secondo capitolo imperniato sull’egemonia dei timbri onirici sul carattere d’autenticità, che al contrario concede poco al bisogno di fuggire dalle ingiurie quotidiane, la conciliazione degli opposti coglie nel segno. E in Love? L’oltranzismo stilistico, attinto in Dreams a Blue di Derek Jarman per conferire al colore green che pervade lo schermo la valenza d’una chiara metafora dell’età verde soggetta all’altalena dei vari batticuori, è invece apparentemente dispiegato in un piano sequenza di ben dieci minuti. Distante però da qualsivoglia virtuosismo tecnico ed evocativo. Bensì intento a veicolare l’attenzione degli spettatori nella conversazione dei due spazzacamini protagonisti, ammogliati e con figli, in merito a un estemporaneo rapporto gay. Il taglio della sovrindicata inquadratura, con l’indicativa scambievolezza tra interni ed esterni sugli scudi sancita dalle ampie vetrate dell’ufficio che dà sulla strada del centro di Oslo, l’impianto teatrale, i rumori di fondo, il lavoro di sottrazione, demandato a celare nella ripresa di quinta la figura della partner indignata, adagiata sulla sedia nel salone nell’ennesimo stabile a specchio, rientrano negli stilemi dell’affresco sensoriale. L’evidente affetto per i personaggi, il mix di normalità ed eccentricità tipico dei dramedy basati sul valore terapeutico dell’umorismo congiunto al darwinismo sociale, l’ossessiva presenza, lungo l’itinerario della trama, legata al parco delle sculture, lo spazio verde sconfessato dalla marmorea immobilità delle statue trascinano Sex nella fenomenologia esistenziale cara ad Antonioni.

Per cui la malattia dei sentimenti, sviliti pure dal sogno ricorrente che converte l’icona del compianto cantautore David Bowie in un oggetto muliebre del desiderio, per uscire dall’impasse dei blocchi di lunga durata, monopolizzati dall’intrecciarsi delle loquaci spiegazioni con le attese meditabonde, necessita della virtù di rovesciare i rigidi schemi delle opere a tema. Dag Johan Haugerud però, benché tragga lapalissianamente partito dagli intrecci poveri d’azione ma colmi di contemplazione del nume tutelare Éric Rhomer, stenta ad attribuire ai microdrammi mandati ad effetto, incluso il rapporto padre-figlio connesso ad alcuni siparietti canzonatori, l’attitudine ad amalgamare stilemi agli antipodi tra loro. I dettagli intimi indagati nell’alcova dalla consorte tradita, le fisime sul timbro di voce che muta rotta, le svolte di fantasia soltanto agognate, l’alienazione incombente ricavano comunque abbastanza linfa dalla capacità, cementata dal supporto dell’ironia, di non prendere troppo sul serio la tendenza a parlarsi addosso. L’irrisione in filigrana nei riguardi dell’infedeltà, dovuto all’orientamento sessuale posto in discussione dalla scappatella a parti capovolte, costituisce un indiscutibile punto di forza. Peccato che prevalga lì per lì la sensazione della giustapposizione di mere gag d’alleggerimento rispetto alla severità dell’atmosfera etica anziché la polivalenza dei topoi opposti amalgamati, ciò nondimeno, al meglio. Nel prosieguo, al contrario, la staticità, spesso tragicomica di Sweeper, messo all’angolo dalla coriacea dolce metà, ricava parecchia linfa, sul versante d’una lettura mordace dell’attanagliante alienazione, dalla sincera pietas esibita da Dag Johan Haugerud per quell’atipico spazzacamino. Pentito del fortuito coming out. Svilito per aver perso la stima della madre delle proprie creature. Nondimeno la sterzata dal ricamo sottobanco spiritoso del tradimento fuori dagli standard, scandito dapprincipio alla stregua d’un’autentica inversione di tendenza dal timbro gelido dell’ascetismo figurativo soffuso di pungente sarcasmo, cadrebbe nell’impasse d’una conclusione troppo straziante se l’inopinato scatto fotografico a braccetto d’un’allegra coppia di novelli sposi, ghermiti alle spalle del traditore pentito per mezzo dell’idonea profondità di campo, non trasformasse l’acre realtà dissociata nella sana integrazione dell’ipersensibilità col giusto livello d’estroversione ed educazione.

La liberazione, altresì elegiaca, consente finalmente ai chiarimenti, ex ante sterili, di chiudere il cerchio in maniera feconda ed eminentemente riflessiva. La destrezza mimica di Jan Gunnar Røise nel ruolo dell’affitto Sweeper, che segue in zona Cesarini gli schietti consigli del collega impelagato a sua volta nelle incombenze della paternità, risulta risolutiva nelle battute finali. Quando la voluttà d’astrazione, ed ergo pure d’evasione dal processo mentale privo di scappatoie, sfocia durante uno spettacolo liricizzante nella gioia della condivisione. Assurta ad antidoto contro l’atroce introversione. Thorbjørn Harr, nelle vesti ora sommesse ora sagge dello spazzacamino ligio ai precetti dell’Onnipotente, Supervisor, che crede quindi in ciò che non vede, però avverte profondamente, a differenza dell’agnostico Sweeper, contribuisce ad attribuire alla palingenesi dalla malattia dei sentimenti alla vita degli affetti un peculiare significato spirituale. Impreziosito step by step dalla poliedrica colonna sonora. Che svaria dall’allusiva ed ermetica irregolarità della musica jazz ai nodi che vengono al pettine col brano conclusivo. Attinto, sotto certi aspetti, all’epilogo di dell’incomparabile Federico Fellini. Tuttavia l’arguzia di tramutare sulla scorta dell’accorta fotografia i valori figurativi dell’ampia gamma cromatica in compositi valori introspettivi preserva Sex dall’incognita del déjà vu. La staffetta finale tra il grigiore esistenziale e l’illuminazione della lieta pantomima collettiva è destinata a restare impressa nel cuore e nella mente dei cinefili di provata fede. Allergici ai luoghi comuni. È forse un bene dunque che quest’ultimo capitolo, contraddistinto dalla densità di prospettive dei luoghi dell’anima che accrescono la molteplicità del reale, giunga per ultimo nei cinema dello Stivale. Arricchendo così la freddezza dell’analisi critica in merito agli impulsi lascivi col calore umano dello slancio romantico.


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