Siccità: ho voglia di Te…vere

Realisticamente ricreata tramite un’ottima CGI, l’inquietantemente affascinante immagine di un fiume Tevere disidratato, simbolo di una Roma post-apocalittica in cui non piove da tre anni, farà di sicuro guadagnare un David di Donatello per gli effetti speciali a Siccità, messo in piedi dal livornese Paolo Virzì quattro anni dopo il non molto apprezzato Notti magiche.

Come pure, senza alcun dubbio, otterranno almeno la candidatura all’ambìto “premio Oscar” tricolore il colossale lavoro scenografico svolto da Dimitri Capuano e la fotografia a cura dell’infallibile Luca Bigazzi; qui al servizio di un vero e proprio kolossal italiano popolato, oltretutto, da un ricchissimo cast di nomi in stato di grazia.

Ma, mentre al di là dell’oceano o, senza allontanarci troppo dallo stivale, anche al di là delle alpi la produzione della Settima arte s’impegna di sfornare con grossi capitali veri e propri blockbuster d’intrattenimento infarciti, comunque, di metafora sociale, qui il soldo grosso si preferisce sprecarlo nell’ennesimo dramedy a base di intreccio di personaggi per lo più borghesi, caratterizzati da atteggiamenti spesso poco credibili e che finiscono per risultare simpatici, probabilmente, soltanto a chi il film lo ha scritto.

Quindi, affiancato in sceneggiatura da Francesca Archibugi, Paolo Giordano e Francesco Piccolo, Virzì ci propone, tra gli altri, un Gabriel Montesi bodyguard di Emanuela Fanelli che, sposato con Sara Serraiocco, sta per cacciarsi in un bel guaio, un Silvio Orlando detenuto che si ritrova accidentalmente fuori dal carcere per uno scherzo del destino e un Diego Ribon idrologo ospitato nella lussuosa casa di una super diva Monica Bellucci. Questi ultimi due oltretutto al centro di uno dei segmenti maggiormente irrilevanti di Siccità, insieme alla parentesi riguardante un Max Tortora imprenditore ridotto a vagabondo e a quella in cui viene tirato in ballo un giovane immigrato di colore. Elemento del resto immancabile nei fotogrammi del buonismo nostrano a tutti i costi, come pure la figura di un gay di una certa età che non aggiunge assolutamente nulla all’eccesso di carne al fuoco inserita in circa due ore.

Quel buonismo virziano tipicamente furbacchione che non dimentica neppure di tirare un colpo al cerchio e uno alla botte introducendo addirittura la tematica del femminicidio, ma rappresentandone il responsabile, al contempo, come un povero disgraziato che dovrebbe farci pena. E non parliamo del fatto che, mentre un’invasione di blatte suggerisce scenari da eco-vengeance (filone costituito da pellicole dominate da animali assassini), in una capitale da fine del mondo abbiamo pure una Elena Lietti trascurata e che pensa a tradire il marito Tommaso Ragno, attore teatrale riciclatosi sul web in qualità di influencer.

Tutti individui piuttosto disprezzabili e che, con la solita scusa drammaturgica della ricerca di redenzione, Virzì e soci tentano palesemente, come già accennato, di rendere accattivanti agli occhi dello spettatore; fornendo addirittura il consueto pianto politico relativo alla caduta dei “progressisti”.

Ciò in una fetta di lungometraggio affidata alle visioni di un Valerio Mastandrea scalcinato taxista un tempo autista di auto blu, nonché ex marito della dottoressa Claudia Pandolfi ora sentimentalmente legata ad un Vinicio Marchioni avvocato.

Insomma, validissimo lato tecnico a parte, nel fiacco, banale e inconcludente groviglio di vicende che in più di un caso vengono solo appena abbozzate la siccità del titolo non appare affatto, come vorrebbe l’autore, metafora dell’aridità di sentimenti che traspare dai protagonisti dell’operazione… rischia di rispecchiare, piuttosto, la secca di cui è vittima da ormai troppo tempo la scrittura di cinema del paese di Suso Cecchi D’Amico, Cesare Zavattini, Agenore Incrocci e Furio Scarpelli (solo per citarne alcuni).

 

 

Francesco Lomuscio