Sorry we missed you: l’ennesima denuncia del cantore della classe operaia che non va in paradiso

I detrattori del talentuosissimo ed esperto regista britannico Ken Loach sostengono che batta sempre sullo stesso chiodo. La militanza politica, che lo ha spinto a spendere il proprio estro in apologhi d’impegno civile, gli ha forse precluso di accedere al Pantheon di Hollywood. Ken il rosso, com’è chiamato dai suoi medesimi accoliti, fa comunque spallucce in merito. Al pari del collega transalpino Jean-Luc Godard: i vispi vecchietti della fabbrica dei sogni sono belli tosti.

Tuttavia, l’adagio latino in medio stat virtus giunge in soccorso di chi, anziché cadere nell’impasse dell’idolatria incondizionata, vuole chiarire i motivi per cui il decano inglese non considera gli incubi dei titolari delle mini imprese degni di arricchire il valore evocativo del grande schermo. La sua ultima fatica cinematografica, Sorry we missed you, sembra fornire una valida risposta. Sia pure tra le righe.  Il cantore per antonomasia della working class anglosassone, lungi dal ripetere a ogni piè sospinto la stessa solfa, continua a trarre linfa dai tratti distintivi della geografia emozionale.

Dopo aver scandagliato l’interazione tra habitat ed esseri umani conferendo notevole forza significante alle norme di presenza della terra d’Irlanda – da Cúil Aodha, nella contea di Cork, in Il vento che accarezza l’erba a Leitrim (lì-trəm per l’antica lingua gaelica), nel toccante Jimmy’s Hall – Una storia d’amore e libertà – l’arzillo ottantatreenne sembra aver eletto il distretto di Newcastle ad attante narrativo carico di senso. L’insolito teatro a cielo aperto – già alla base del previo film Io, Daniel Blake, premiato con la Palma d’Oro alla sessantanovesima edizione del Festival di Cannes – non risulta, in ogni caso, analogo a quello della volta precedente. L’unico, singolare punto di convergenza è costituito dall’utilizzo ribelle ed ergo catartico delle bombolette spray. Mezzo d’espressione del falegname dal cuore buono ma malconcio, Daniel Blake, che reclama l’identità smentita dall’insensibilità burocratica esigendo ugualmente con l’iscrizione apposta sul muro attiguo la data del ricorso per il reddito di sussistenza rimandato alle calende greche. Reddito che, al contrario, il fulvo Ricky orgogliosamente rifiuta prima di divenire vittima dell’empia gig economy. L’irrequieto figlio Seb, adolescente allergico alla scuola, incapace di capire i sacrifici del padre, obbligato ad appendere il cartellino con sopra scritto “Sorry I missed you” per i destinatari dei pacchi di Amazon fuori casa, si serve degli spray per comunicare un dissenso art-pop nei confronti del sistema.

La risaputa dinamica del campo-controcampo, con il protagonista a colloquio col principale deciso ad accrescere le consegne senza guardare in faccia nessuno, cede presto il passo ai timbri antropologici dal sapore documentaristico. Mentre la descrizione dell’attivo tran tran del protagonista, che tifa per la squadra della sua città natale, il Manchester United, ed entra in rotta di collisione con il fan del Newcastle Football Club ostile al lettore col codice a barra, appare generica, quantunque indicativa, l’analisi psicologica condotta in seno alla famiglia svela meglio gli strascichi delle molteplici condizioni capestri. In quel curioso rapporto di causa ed effetto s’intravede lo zampino dello sceneggiatore Paul Laverty. Attento a cogliere l’assurdità consumata ai danni dell’impiegato, oppresso alla stregua di un automa costretto ad anteporre gli alloggi altrui. Il tocco di Loach è evidente negli esplorativi movimenti di macchina, ora dal basso verso l’alto, ora da sinistra verso destra, decisi ad abbinare rigore stilistico ed estrema scioltezza antropica nell’ennesima ricerca del tempo perduto. L’apparente invisibilità dell’impianto tecnico, che riesce ad assorbire le lezioni dei precursori, con i Maestri del Free Cinema sugli scudi, non dà, però, il giusto risalto ai compiti umilianti, seppur prodighi, della consorte Abby. Badante dai modi pacati destinata a perdere la tramontana. Il personaggio della figlioletta, Liz Jane persuade maggiormente. Merito della virtù d’imprimere agli elementi ambientali la capacità di riverberare gli stati d’animo. Lo sfogo panteista, quando la ragazzina va ad aiutare il padre nelle dure commissioni, assume la funzione creativa di un interludio accostabile alla nota calma prima della tempesta.

Al carattere spedito, ai limiti del bozzettismo sociale, si va così ad aggiungere una componente manieristica che perlustra in chiave quasi surreale la camionetta dove il sudore della fronte dello stakanovista trova negli aggeggi moderni un intralcio conforme sotto certi aspetti al computer di 2001: Odissea nello spazio. L’asciuttezza iniziale, con i furori del cuore non più ridotti all’osso, bensì acuiti sulla falsariga dei mélo di Douglas Sirk, traballa. In mancanza di soluzioni, anche se convenzionali, in grado di assicurare all’epilogo nero un barlume di speranza. Sull’esempio dei cult Qualcuno volò sul nido del cuculo del compianto Miloš Forman e Gente comune di Robert Redford. Occorre, in proposito, ricordare a chiunque li ritenga prodotti privi di nesso con le opere d’autore realizzate da Loach che fu l’alacre Ken con Family life a ispirare lo scandaglio introspettivo dell’esistenza in manicomio da una parte e l’orrore del dolore patito dalla classe borghese dall’altra. Forse rinunciando agli eccessi del lavoro di sottrazione, insieme ai limiti dei manifesti programmatici, l’esimio fuoriclasse della cinepresa potrebbe almeno salvare dall’oblio i piccoli imprenditori. Privati del capannone e assillati dalle banche, nonostante abbiano pagato tutti gli operai. Gettare maggior luce su determinati contesti negletti non equivarrebbe ad acquisire la chimerica patente d’infallibilità. Attribuita dai fan a prescindere. Darebbe, tuttavia, la possibilità al nostro affezionatissimo di chiudere il cerchio. Sorry We missed you, intanto, rimane un saggio critico, dal retrogusto amaro, riuscito a metà. Alla prossima, Sir Loach.

 

 

Massimiliano Serriello