Stasera in tv Amarcord di Federico Fellini

Stasera in tv su Cine34 alle 21 Amarcord, un film del 1973 diretto da Federico Fellini. È uno dei film più noti del regista, al punto che lo stesso titolo Amarcord, univerbazione della frase romagnola “a m’arcord” (“io mi ricordo”) è diventato un neologismo della lingua italiana, con il significato di rievocazione in chiave nostalgica. Prodotto da Franco Cristaldi, scritto e sceneggiato da Federico Fellini e Tonino Guerra, con la fotografia di Giuseppe Rotunno, il montaggio di Ruggero Mastroianni, le scenografie e i costumi di Danilo Donati e le musiche di Nino Rota, Amarcord è interpretato da Pupella Maggio, Armando Brancia, Giuseppe Ianigro, Magali Noël, Ciccio Ingrassia, Nando Orfei, Luigi Rossi, Bruno Zanin, Gianfilippo Carcano, Josiane Tanzilli, Maria Antonietta Beluzzi, Marcello Di Falco, Alvaro Vitali. Premio Oscar per il miglior film straniero nel 1975.

Trama
A Borgo, nei primi anni ’30, l’adolescente Titta cresce subendo condizionamenti dentro e fuori l’ambito domestico. Suo padre Aurelio è un piccolo imprenditore edile, perennemente in discordia con la moglie Miranda. Zio Patacca vegeta alle spalle dei parenti; zio Teo è ricoverato in manicomio. Nella provinciale cittadina vivono anche Gradisca, una procace parrucchiera e Volpina, una ragazza priva di freni inibitori.

Dice Paolo Virzì, a cui fa eco Goffredo Fofi, all’interno dei contenuti speciali del blu ray, che se si dovesse spiegare cos’è l’Italia agli extra terrestri, senza utilizzare eccessivi giri di parole, la cosa migliore da fare sarebbe mostrargli Amarcord di Federico Fellini. Il regista toscano e l’insigne critico marcano, in tal senso, il carattere fortemente antropologico di un film che ha segnato in maniera indelebile l’immaginario della vita di provincia del nostro paese, laddove la ricognizione delle tipologie umane gravitanti nel borgo riminese, unita all’inarrestabile inventiva dell’autore de La dolce vita e , ha prodotto figure immarcescibili che popolano, senza timore di svanire col tempo, le fantasie di un popolo, il quale, per quanto trascinato da un inarrestabile processo di omologazione prodotto dalla logica dei consumi, rimane tenacemente aggrappato a un zoccolo duro di tradizioni e filosofie di vita. La chiesa, il fascismo, l’ipocrisia, il perbenismo piccolo borghese, l’assenza di spirito critico e il forte desiderio di mimetismo sociale produssero un campionario umano di dubbio valore etico, e ciò che colpisce è la diffusa incapacità dei vari personaggi di assumere una qualsiasi posizione rispetto agli eventi, che trascinano tutti, come in un torrente, verso una landa nebbiosa (vedi la sequenza del nonno che non ritrova più la strada di casa) dove irrompe improvvisa la morte (o la sensazione di essa).

Sebbene siano la spensieratezza e la goliardia a imperversare per quasi tutta la durata del film, Fellini, coadiuvato dall’esperienza di Tonino Guerra, ammanta la narrazione di un senso continuo di malinconia e angoscia che emerge a sprazzi, intervallando saltuariamente i vari episodi che, come tessere di un mosaico, compongono l’immagine complessiva di un’umanità fragile, la quale, quantunque fondamentalmente innocente (siamo in un fase precapitalistica, o paleo-capitalistica, come avrebbe affermato Pasolini), risponde a meccanismi comportamentali indotti che la rendono tragicamente esposta a un destino che pare inesorabile e privo della benché minima speranza. D’altronde lo stesso Fellini abbandonerà assai presto il borgo natio per trasferirsi a Roma, la città millenaria, cialtrona e dispersiva, che comunque lo accoglierà, fornendogli la possibilità di dare espressione alla sua inesauribile vena creativa, che altrimenti sarebbe fatalmente inaridita in un contesto asfittico, in cui l’esposizione continua a uno sguardo denigratorio e sbeffeggiante non concedeva alcuna possibilità di trovare una strada che non fosse quella della sparizione in un ordine simbolico saldamente prestabilito (fa eccezione a questa regola Giudizio, ma, per l’appunto, è lo scemo del villaggio, che incarna l’unico modo di vivere in maniera alternativa).

Una parte minoritaria della critica dell’epoca rimproverò il regista per non aver sufficientemente stigmatizzato lo scempio causato dalla diffusione della ‘cultura’ fascista e l’eccessiva frammentazione del film, che avrebbe reso la narrazione nel complesso discontinua, ma queste osservazioni, seppur legittime, trascurano la natura della visionarietà di Fellini, fatta di immagini potenti, ma brevi, esattamente come spesso accade nei sogni, quando al risveglio rimane impressa, come fosse un quadro, una figura singola che, nella sua immediatezza, veicola una selva di significati che ci si potrebbe trastullare a interpretare all’infinito. Fellini impressionava la pellicola con elaborazioni libere della realtà (non è un mistero che i suoi disegni costituivano un vero e proprio story board) che si agitavano nella sua mente e a cui non poteva evitare di dare corpo (più volte il regista ha affermato di essere quasi ‘attraversato’, come fosse un medium, dalle immagini di un mondo fantastico, che doveva solo lasciar esprimere).

Non ci soffermeremo in questa critica a elencare personaggi e situazioni leggendarie del celebre film, piuttosto ci pare interessante segnalare quelle sequenze in cui appare chiaro l’apporto fornito da Tonino Guerra, e non crediamo di sbagliare individuandolo soprattutto nell’episodio della morte della madre del protagonista, laddove si verifica un improvviso cambio di tono, proprio verso il finale, quasi a siglare, drammaticamente, un epilogo che retro illumina tutte le micro vicende raccontate, ammantandole di un notevole grado di tristezza. Per non parlare (ma qui c’è la mano di Fellini) del malinconico matrimonio della Gradisca, che costituisce un mutamento decisivo, dato che si assiste all’abbandono del villaggio amato e odiato, quasi come se, dopo esser stati a lungo nutriti nel ventre materno, imbevuti di liquido amniotico, ci si dovesse per forza di cose esporre al trauma di un parto. Oppure nella sequenza della fattoria (in cui era stato portato lo zio matto, incredibilmente interpretato da Ciccio Ingrassia), dove, nel silenzio della canicola estiva, in una quiete surreale, un bambino improvvisamente prende una pietra per gettarla su un neonato in una carrozzina e solo l’intervento tempestivo della madre sventa la tragedia, che si sarebbe compiuta nell’apparente armonia di uno scenario bucolico.

Questi e ad altri eventi costituiscono la sommessa critica che Fellini muove al suo mondo d’origine, che pure ama, anche se non può mancare di far trapelare l’orrore che cova tra le pieghe di un’apparenza rassicurante. Amarcord, come “Asa Nisi Masa” in , è una parola magica, che se pronunciata apre un varco temporale verso un passato che si giustappone accanto al presente, in maniera pulsante, incarnando una riserva di senso cui Fellini non ha mai smesso di attingere, popolando le sue pellicole di quelle reminiscenze che, prendendo corpo, contestano la prosaicità dell’attualità. Il suo è un amabile anacronismo, un mondo ipertrofico che non può esser contenuto, per esempio, nell’asetticità di un testo, ma trova alloggio in un prolifico immaginario che non cessa di produrre figure perturbanti (che attraggono e respingono al tempo stesso).

 

 

Luca Biscontini